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domenica 7 novembre 2021

Da guardiani di frontiere a custodi dei fratelli( da Osservatore Romano 6 novembre 2021 - Gaetano Vallini)

 

Nel mare di Isola Capo Rizzuto una testimonianza di umanità e solidarietà

di Gaetano Vallini

La violenza  delle onde e del vento che fanno inclinare paurosamente l’imbarcazione spingendola verso gli scogli lontano dalla riva,  e nel buio della sera le urla di terrore delle 88 persone a bordo, tra cui donne e bambini,  provano a sovrastare il frastuono del mare in burrasca: è una scena drammatica quella che mercoledì si presenta davanti agli occhi di alcuni  abitanti  di Canella, a  Isola Capo Rizzuto (Crotone), i quali subito allertano la Polizia. Ma è impossibile intervenire via mare. E allora i soccorritori non  esitano a entrare nell’acqua gelida e agitata, creando  “un ponte di braccia” tra la barca e la spiaggia per mettere in salvo i migranti partiti tre giorni prima dalla Turchia.

Era già successo, il 24 luglio 2018,  sempre a Isola Capo Rizzuto, quando   un’imbarcazione con 56 persone si arenò a pochi metri dalla riva: allora a soccorrerli furono i vacanzieri coi pattini. E ancora prima, era Ferragosto 2013, una catena umana di bagnanti e soccorritori a Pachino (Siracusa), portò in salvo 160 migranti arrivati su un barcone a pochi metri dalla spiaggia.

Altre storie analoghe si  potrebbero aggiungere. Storie, e immagini, di grande solidarietà e umanità, in contrasto con quelle di muri e reticolati, che raccontano  di società sempre più chiuse e timorose, incapaci di accogliere. 

Forse dovremmo chiederci,  come ha fatto proprio ieri Papa Francesco,  «che vantaggio abbiamo a farci guardiani di frontiere, invece che custodi dei nostri fratelli».

©L’Osservatore Romano del 6 novembre 2021

venerdì 17 settembre 2021

 


Nel 2020 sono stati 227 gli attivisti ambientali assassinati, mai così tanti

di Gaetano Vallini

Óscar Eyraud Adams, esponente della comunità indigena messicana Kumiai,  si  opponeva alle industrie estrattive che contribuiscono alla scarsità d’acqua nella Baja California. Óscar,  ucciso lo scorso 25 settembre, è uno dei 227 attivisti ambientali assassinati nel 2020. Una cifra spaventosa, con una media di 4 morti a settimana,  la più alta da quando, nel 2012, la ong Global Witness ha iniziato la tragica conta. L’anno precedente le vittime erano state 212. E il rapporto annuale, presentato nei giorni scorsi, conferma come lo sfruttamento irresponsabile e l’avidità alla base della crisi climatica siano anche i moventi delle violenze nei confronti dei difensori dell’ambiente: è infatti divenuto sempre più evidente il legame tra l’intensificarsi dei cambiamenti del clima e gli attacchi mortali.

Gli omicidi, si legge nel rapporto, avvengono in un più ampio contesto di minacce, che vanno dalle intimidazioni alla sorveglianza, dalle campagne di criminalizzazione alle violenze sessuali. E le cifre sono quasi certamente sottostimate, visto che molti attacchi non vengono denunciati. Si tratta dunque di un fenomeno sempre più allarmante, che però non suscita particolare indignazione, soprattutto nei paesi industrializzati. Global Witness sottolinea infatti che, al pari degli impatti della stessa crisi climatica, la gravità delle violenze contro gli attivisti ambientali non viene percepita in modo uniforme nel mondo. Come a dire che certe problematiche, nonostante segnali allarmanti, appaiono ancora lontane.

Per il secondo anno consecutivo è la Colombia il Paese con il numero più alto di uccisioni, ben 65. Gli omicidi sono avvenuti in un clima di diffusi attacchi ai difensori dei diritti umani e ai leader delle comunità, e questo nonostante le speranze accese dall’accordo di pace del 2016. Le popolazioni indigene sono state particolarmente colpite e la pandemia di covid ha peggiorato la situazione: con i lockdown il governo ha tagliato le misure di protezione e le vittime sono state spesso colpite direttamente nelle loro case.

Al secondo posto di questa tragica classifica c’è il Messico, dove sono stati accertati 30 morti, con un aumento del 67% rispetto al 2019. Il disboscamento è stato collegato a quasi un terzo degli assassinii.  Un legame rivelatosi  particolarmente evidente in Brasile (26 vittime) e in Perú (6), dove quasi tre quarti degli attacchi registrati hanno avuto luogo nella regione amazzonica dei due Paesi. E a conferma del fatto che l’America Latina resta il posto più pericoloso per i difensori della terra, a quelli già citati vanno aggiunti i 17 assassinii in Honduras, i 13 in Guatemala, i 12 in Nicaragua e la vittima registrata in Argentina.

Ventinove sono invece state le vittime nelle Filippine, dove si è registrato un progressivo deterioramento della situazione relativa ai diritti umani. L’opposizione alle industrie dannose è spesso oggetto di violente repressioni da parte della polizia e dei militari. In particolare oltre la metà dei raid è stato direttamente collegato alle mobilitazioni contro la realizzazione di miniere, dighe e programmi di disboscamento. Nel più grave degli attacchi nove indigeni Tumandok sono stati uccisi e altri 17 arrestati sull’isola di Panay: si opponevano alla costruzione di una mega-diga sul fiume Jalaur. Il rapporto segnala come dall’elezione di Duterte alla presidenza, nel 2016, sono stati 166 gli attivisti uccisi, un numero scioccante anche per un Paese  già considerato pericoloso per i difensori della terra e dell’ambiente

Global Witness ha documentato 18 uccisioni in Africa; nel 2019 erano state sette.  Quindici omicidi sono stati compiuti nella Repubblica Democratica del Congo,  due  in Sudafrica e uno in Uganda. Più di un terzo degli attacchi è stato collegato allo sfruttamento delle risorse e alla costruzione di dighe idroelettriche e altre infrastrutture.

A livello globale, 28 degli uccisi erano guardiaparchi. Un terzo degli attacchi mortali ha preso di mira gli indigeni, quasi la metà dei quali piccoli agricoltori. Molte delle vittime erano impegnate nella protezione dei fiumi, delle aree costiere e gli oceani, ma la maggioranza di loro, il 71%, era attiva nella difesa delle foreste.

Come negli anni precedenti, nel 2020 nove vittime su dieci erano uomini. Ma le donne che agiscono e parlano in difesa dell’ambiente hanno dovuto affrontare forme di violenza specifiche di genere, compresa quella sessuale. Le donne, si sottolinea, hanno spesso una doppia sfida: la lotta pubblica per proteggere la loro terra e la quella meno visibile per difendere il  diritto di parola all’interno delle loro comunità e famiglie. Inoltre in molte parti del  mondo  sono ancora escluse dalla proprietà della terra e dalle  discussioni sull’uso delle risorse naturali.

Il Sud del pianeta sta  soffrendo le conseguenze più immediate del riscaldamento globale, quindi non sorprende che tutti i 227 omicidi di difensori registrati, tranne uno (in Canada), hanno avuto luogo proprio nei paesi più poveri. Il rapporto rileva inoltre il numero sproporzionato di attacchi contro le comunità indigene, oltre un terzo del totale, anche se costituiscono appena il 5% della popolazione mondiale.

«Molte aziende — si legge sul sito Global Witness — si impegnano in un modello economico estrattivo che dà la priorità al profitto rispetto ai diritti umani e all’ambiente. Questo potere aziendale incontrollabile è la forza sottostante che non solo ha portato la crisi climatica sull’orlo del baratro, ma che ha continuato a perpetuare l’uccisione dei difensori». In sostanza, in troppi paesi ricchi di risorse naturali e di biodiversità molte aziende operano nella quasi totale impunità. E ciò è particolarmente evidente laddove ci sono governi fin troppo disponibili a chiudere un occhio e a non adempiere al loro mandato fondamentale di sostenere e proteggere i diritti umani.

«Un giorno speriamo di segnalare la fine della violenza — ha affermato Chris Madden, di Global Witness — ma finché i governi non prenderanno sul serio la protezione dei difensori e le aziende non inizieranno a mettere le persone e il pianeta prima del profitto, sia il crollo climatico che le uccisioni continueranno». E continueranno perché, nonostante le violenze,  la lotta dei popoli più minacciati non si fermerà.

«La gente a volte mi chiede cosa farò, se resterò qui e manterrò viva la lotta di mia madre. Sono troppo orgogliosa di lei per lasciarla morire. Conosco i pericoli, tutti noi conosciamo i pericoli. Ma ho deciso di restare. Mi unirò alla lotta», ha detto Malungelo Xhakaza, figlia dell’attivista sudafricana assassinata Fikile Ntshangase,  che si batteva contro l’espansione di una miniera di carbone a cielo aperto vicino a Hluhluwe — Imfolozi Park, la più antica riserva naturale dell’Africa. Dovrebbe darci speranza sapere che, nonostante i rischi, ci sono persone coraggiose pronte a lottare per la loro terra e per il nostro pianeta. Loro sono “l’ultima linea di difesa”, come sottolineato dal titolo del rapporto, o la prima: dipende dai punti di vista. Ma non dovrebbero essere lasciate sole. Perché se nell’immediato in gioco c’è la sopravvivenza delle loro comunità, in un futuro drammaticamente sempre più vicino in ballo c’è la sopravvivenza di tutti.

©L’Osservatore Romano del 17 settembre 2021

martedì 14 settembre 2021

La realtà tra sorrisi e lacrime nel nuovo Sorrentino

 

In  «È stata la mano di Dio» il regista si racconta con un inedito  registro narrativo  

di Gaetano Vallini

Il Paolo Sorrentino che non ti aspetti, capace di mettere da parte l’esuberante visionaria autorialità diventata il suo tratto caratteristico, per uno sguardo più intimo. È stata la mano di Dio, l’ultimo suo film, presentato alla mostra del cinema di Venezia, sorprende, dunque, piacevolmente, perché mostra un lato inedito del regista napoletano, che mette da parte la finzione per piegarsi al reale, ritenuto questa volta degno di essere mostrato, senza stravolgimenti. E forse non poteva essere diversamente, visto che quella che sceglie di raccontare è una storia personale, un passaggio fondamentale della sua vita.  

Così, in un intreccio di realtà e fantasia, Sorrentino torna indietro nel tempo, nella Napoli degli anni Ottanta travolta dalla favola calcistica legata all’arrivo di Maradona e a quell’anno particolare che lo segnò profondamente. Affidandosi all’impacciato e solitario diciassettenne Fabietto, suo doppio, il regista ricostruisce uno spaccato di vita familiare piuttosto ordinaria, sia pure segnata da alcune figure pittoresche e situazioni  talvolta sopra le righe. Ci sono i pranzi interminabili, le gite in barca con i parenti, le scenate tra coniugi per presunte o reali infedeltà, cui non si sottraggono neppure i genitori, Saverio e Maria, i quali nonostante tutto continuano ad amarsi.  E poi c’è Patrizia, uno dei personaggi inventati del film, zia mentalmente disturbata ma attraente, di cui il giovane è infatuato, che con la capacità di vedere la vita nella sua drammaticità, in netto contrasto con la leggerezza che pervade il resto della famiglia, sembra la sola a comprenderlo veramente.

Una vita normale, che nonostante tutto a Fabietto piace, ma che viene stravolta bruscamente da una tragedia familiare: la morte improvvisa dei genitori. E qui la realtà prende il sopravvento. Sorrentino perse il padre e la madre per un avvelenamento da monossido di carbonio mentre in un fine settimana si trovavano in una casa di villeggiatura. Avrebbe dovuto essere lì anche lui, se non avesse ottenuto il permesso di andare a vedere la partita del Napoli e seguire il suo idolo.

Sorrentino da allora è convinto di essere stato salvato da Maradona, da una sorta di forza protettrice scaturita da quel calciatore venerato dai tifosi napoletani quasi fosse una divinità: non era forse sua “la mano di Dio” che “vendicò” l’Argentina con l’Inghilterra dopo la guerra per le isole Malvine-Falkland nella celebre partita dei mondiali del 1986 in cui segnò il gol rubato più famoso e quello più bello della storia?

Come il giovane Paolo, anche Fabietto, divenuto orfano, cerca un modo per sfuggire al dolore, alla tragedia che lo catapulta in una realtà inattesa, costringendolo repentinamente a decidere del proprio destino. Fabietto deve crescere, diventare Fabio, capire chi e cosa vorrà essere. Comincia a pensare al cinema come a una distrazione, se non addirittura come a una forza in grado di riscattare tutto. E in questo snodo cruciale troverà nello sceneggiatore e regista Antonio Capuano – nella realtà vero mentore di Sorrentino - un’appassionata quanto brutale guida.

È stata la mano di Dio - prodotto da Netflix, che lo manderà in onda sulla sua piattaforma dal 15 dicembre dopo un passaggio nelle sale a partire dal 24 novembre - è una commedia che precipita nella tragedia; si sorride, anche di gusto, travolti dalla napoletanità prorompete e ineguagliabile di certi personaggi, e ci si commuove per la sincerità che emerge nelle scene in cui si coglie la sofferenza interiore del giovane protagonista. E proprio il riso serve a sciogliere il dolore prima che diventi insopportabile.

Grazie ad attori che lo assecondano con grande bravura – in particolare la rivelazione Filippo Scotti (Fabietto), Luisa Ranieri (Patrizia) e i ben collaudati Toni Servillo (Saverio) e Teresa Saponaro (Maria) – Sorrentino rivela un’inattesa franchezza di racconto. Attingendo ai ricordi del passato e all’esperienza interiore, il regista di La grande bellezza e della serie The Young Pope rinuncia al suo originale stile narrativo per un linguaggio più misurato, minimalista pur nelle meticolosità di certe ricostruzioni, anche se nel film non mancano, soprattutto all’inizio e alla fine, sprazzi di apprezzabile “sorrentinismo”.

Un film in qualche modo catartico per lo stesso regista, che nel mettere in scena una  storia di formazione non teme di rivelarsi intimamente,  spingendosi in un territorio finora inesplorato dal suo cinema. Non tutto ciò che si vede è accaduto davvero, ha precisato il regista, “ma è del tutto autentico nel riflettere quello che ho veramente provato in quel periodo del passato”. E proprio in questo sta la forza della pellicola, che però va oltre, portando il regista a riflettere anche su quello che è stato il suo percorso professionale.   Un film sui sentimenti, dunque, ma anche sul cinema, oltre che un omaggio a quella Napoli in cui non girava da vent’anni, dai tempi di L’uomo in più.

Difficile dire se È stata la mano di Dio forse modificherà il linguaggio cinematografico di Sorrentino – troppo marcata è la sua cifra stilistica – ma questa repentina deviazione, che probabilmente non sarà pienamente apprezzata dai più appassionati estimatori del regista, lo avvicinerà un po’ di più a quanti trovano invece eccessivamente estetizzante il suo cinema. E se anche si trattasse solo di una parentesi – comunque  meritevole di ulteriori opportunità - il risultato ottenuto è decisamente pregevole.

©L’Osservatore Romano del 9 settembre 2021

martedì 10 agosto 2021

Da Vatican News 9 agosto 2021: Giappone tra Olimpiadi e Paralimpiadi

 

I vincitori dell'oro nel salto in alto maschile a Tokyo: Gianmarco Tamberi e Mutaz Ezza Barshim
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Le cerimonie di commemorazione in Giappone dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki (Yasuyoshi Chiba / Afp)
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Concluse le Olimpiadi di Tokyo 2020, il Paese si appresta a vivere i Giochi Paralimpici che si disputeranno dal 24 agosto al 5 settembre di quest'anno. Tutto ... 

domenica 7 agosto 2016

Il Papa confessa alla Porziuncola(osservatore Romano)

Posted: 05 Aug 2016 06:30 AM PDT

dal nostro inviato Gaetano Vallini
Non era in programma, tuttavia il gesto del Pontefice resterà il cuore di questo breve  ma significativo viaggio ad Assisi, perché compiuto alla Porziuncola, che il santo poverello aveva immaginato come “porta del paradiso” su questa terra. Papa Francesco,  terminata la meditazione e dopo aver invitato i vescovi  umbri e i frati presenti all’interno della basilica di Santa Maria degli Angeli a fare altrettanto, ha indossato la stola e si è recato in confessionale. Vi è rimasto circa un’ora durante la quale ha confessato  diciannove persone, tra cui quattro ragazzi scout, due sacerdoti, un frate, un’anziana sulla sedia a rotelle, una giovane mamma accompagnata dal figlio con disabilità e alcuni volontari della Porziuncola. E così nel pomeriggio di giovedì 4, la basilica, con i confessionali tutti occupati, come alcune delle cappelle laterali, ha vissuto un lungo momento di perdono. «Ci farà bene riceverlo oggi qui insieme», aveva detto il Pontefice invitando i fedeli presenti, un migliaio, ad accostarsi al sacramento della riconciliazione. 
Ma anche un altro gesto ha assunto qui ad Assisi, città della pace, un significato particolare in un periodo di grande tensione: l’incontro del Papa con  Abdel Qader Mohd, imam di Perugia. Un colloquio brevissimo durante il quale il leader musulmano ha però espresso a Francesco gratitudine  per le sue recenti parole, ovvero per aver sottolineato che terrorismo e islam non sono identificabili, assicurandogli di essere accanto a lui e alla Chiesa in questo difficile momento.
 Perdono e pace, dunque. Nessun altro posto al mondo sembra più adatto per sperimentare la grandezza di tali doni. In particolare la gioia di ricevere la misericordia di Dio. Hic locus sanctus est, si legge varcando la soglia della Porziuncola. Questo luogo è davvero santo, e basta alzare lo sguardo sopra l’arco della porta per leggere un’altra scritta, più piccola,  che aggiunge senso alla prima: Haec est porta vitae aeternae, questa è la porta della vita eterna.  Varcarla significa sperimentare  la promessa di paradiso fatta da san Francesco alle migliaia di pellegrini che qui vengono a chiedere perdono, a lucrare l’indulgenza.
E il Papa, che di quel santo ha preso il  nome,  ha voluto essere qui come un semplice pellegrino. Ma il suo varcare la porta della Porziuncola ha assunto un valore tutto particolare in questo anno santo straordinario che egli ha voluto dedicare proprio alla misericordia, e ancora di più perché avvenuto in  una ricorrenza significativa: gli ottocento anni del Perdono di Assisi, concesso da Onorio iii  su insistenza del piccolo frate che voleva mandare tutti in paradiso, come ha ricordato il Papa all’inizio della meditazione.
Nella chiesetta, dopo aver deposto dei fiori sul piccolo altare,  Francesco è rimasto in preghiera silenziosa per circa un quarto d’ora, prima accompagnato dal canto della corale poi dal raccoglimento dell’intera assemblea.
Sono stati i primi, intensissimi momenti di questa seconda visita ad Assisi — la prima il 4 ottobre 2013 — iniziata poco dopo le 15.30, quando, con un po’ di anticipo sull’orario previsto, l’elicottero con il  Papa a bordo è atterrato al campo sportivo Migaghelli. Il Papa  si è trasferito in auto alla basilica. Ad attenderlo sul piazzale, sotto il sole davvero cocente del primo pomeriggio, c’erano alcune migliaia di persone, che sono rimaste  fino alla fine della visita, sfidando il gran caldo solo a sprazzi mitigato da leggere folate di vento. Francesco non ha deluso la loro attesa, salutandoli da vicino, accolto da canti e acclamazioni.
 Subito dopo ha raggiunto l’atrio della  basilica, attraversando l’infiorata realizzata da artisti di Spello, che hanno lavorato tutta la notte e l’intera mattina per realizzare la loro gigantesca opera. Quindi ha attraversato la navata centrale della chiesa, salutato con entusiasmo dai  fedeli  accalcati alle transenne.
Dopo la preghiera silenziosa all’interno della Porziuncola, Francesco ha preso posto su  una piccola pedana accanto all’ingresso, da dove ha ascoltato la lettura del brano di Matteo in cui si viene invitati a perdonare non sette, ma settanta volte sette. Subito dopo ha preso la parola per commentare il passo evangelico che in questo luogo è risuonato più esigente e significativo. E reso concreto da quei confessionali aperti dal Papa, che della misericordia e del perdono ha fatto i cardini del pontificato. Parole che non si stanca mai di ricordare soprattutto ai sacerdoti. Come ha fatto anche ieri quando, presentato a un giovane frate che il 2 agosto, nel giorno della festa del Perdono di Assisi, aveva confessato per la prima volta, gli ha detto: «In confessionale sii misericordioso».
Finite le confessioni il Pontefice è tornato davanti alla Porziuncola dove, prima di impartire la benedizione, ha invitato i presenti a recitare il Padre nostro. È seguito lo scambio dei doni: una scultura di legno  di una trentina di centimetri raffigurante san Francesco che abbraccia Gesù crocifisso quello al Papa, che ha ricambiato con un astuccio contenente i mattoni delle porte sante delle quattro basiliche papali di Roma. Due  mattoni della porta santa di San Pietro Francesco li ha successivamente donati anche al vescovo diocesano e al custode del sacro convento.
Lasciata la chiesa, in un cortile laterale  il Papa ha salutato i vescovi umbri guidati dall’arcivescovo di Perugia - Città della Pieve, cardinale Gualtiero Bassetti,  i superiori generali degli ordini francescani,  il segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, arcivescovo José Rodríguez Carballo, e l’imam di Perugia.
Successivamente si è svolto un momento che il Pontefice ha voluto fosse strettamente privato: l’incontro con tredici  religiosi ammalati, avvenuto nel refettorio dell’infermeria. Tra loro padre Angelo Catalogna, 81 anni, frate minore della provincia umbra, per 40 anni missionario in Argentina, durante i quali è anche stato cappellano della polizia di Buenos Aires. Il Papa lo ha riconosciuto, salutandolo con affetto e ricordandone il carattere particolarmente dinamico.  Ha quindi lasciato un pensiero scritto di suo pugno in spagnolo sul libro degli ospiti  del convento: «Benediciamo il Signore, perché è grande la sua  misericordia. Grazie per la vostra testimonianza e vi chiedo, per favore, di pregare per me. Fraternamente, Francesco».
 Al termine della visita il Pontefice  è uscito sul sagrato dove ha salutato  nuovamente i fedeli presenti sulla piazza, rinnovando l’invito  a perdonare, sempre, perché, «se perdoneremo, il Signore ci perdonerà». Dopo la benedizione, il Papa   in auto ha raggiunto il vicino campo sportivo dove lo attendeva l’elicottero che lo ha riportato in Vaticano al termine di una visita durata circa tre ore.


(©L'Osservatore Romano – 6 agosto  2016)

Foglio della Collaborazione Pastorale Di San Giorgio di Nogaro

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