I ricordi, i legami, la famiglia del giornalista che narra da “infiltrato” le nuove schiavitù Fabrizio Gatti: vi racconto la magica Malisana e la mia infanzia in Friuli
«Vengo da una famiglia che è andata per il mondo a cercare un lavoro»
La luce di nonno Pietro che dal campanile guidava gli aerei alleati
Il reporter errante nei deserti del mondo
di NICOLA COSSAR
Seduto a scrivere in uno dei tanti deserti del mondo, e dell’anima, lui non si perde, ha la sua bussola. La bussola della memoria degli affetti, del tempo fermo – quasi marqueziano – di un’infanzia felice. Di un’infanzia furlana a Malisana, paese di emigranti. Emigranti come mamma Teresa (a Milano) e zio Mario (in Sudafrica). Ecco, la piccola luce che riscalda e illumina il percorso umano e professionale di Fabrizio Gatti (l’inviato dell’Espresso vincitore del Premio Terzani 2008 per il viaggio nelle nuove schiavitù testimoniato nel suo splendido libro Bilal) viene proprio da questa terra che lui ama (riamato) con l’intensità di sempre.
– Fabrizio, ora ricevi il Premio Terzani proprio in quel Friuli che in qualche modo ti appartiene...
«Non so se mi appartiene il Friuli. Forse non è giusto così, forse appartengo io un po’ al Friuli...».
– Raccontaci un po’...
«Teresa, la mia mamma, è una delle emigranti friulane che nel 1957, in un Friuli post-bellico in grave crisi economica, ridotto quasi alla fame, decisero di partire da Malisana per cercare lavoro in Lombardia. Dalla famiglia era già partito un suo fratello, Mario, per il Sudafrica nel 1954, con la nave Africa da Trieste».
– Laggiù c’è ancora una colonia di gente partita da di Torviscosa...
«Quelli di Torviscosa andarono praticamente tutti a lavorare a Unkomaas, dove era in costruzione un impianto per la produzione di cellulosa, per poi produrre carta. Anzi, era il più importante del Sudafrica e credo lo sia tutt’ora. E così, fra tanti che sono partiti per cercare una prospettiva diversa, c’era anche lo zio Mario, che per me era lo zio: più un mito che una persona, dato che è venuto poche volte in Italia e io l’ho conosciuto soltanto nel 1981».
– Sembra si parli di un altro mondo, vero?
«In realtà, fa parte di una memoria del presente, che l’Italia, e l’Europa stessa, non tiene ben viva. E poi c’è questo aspetto che, secondo me, è bellissimo e che fin da bambino mi stupiva: dentro ogni nostra famiglia c’è un pezzo di storia del mondo, perché in fondo la storia viene fatta dalle persone. Dentro la mia famiglia, per quanto riguarda la parte friulana, ci sono storie di emigrazione che sono storie di grandissimo coraggio. Così, cominciare a viaggiare nella storia della propria famiglia è importante, perché serve a capire meglio chi siamo».
– Tuo zio in Sudafrica, tua madre invece a Milano. Come mai?
«È andata a Milano per i motivi che sono poi il motore del viaggio dall’Africa all’Europa raccontato nel libro per il quale sono stato premiato. Si cerca lavoro per migliorare le proprie condizioni di vita, mentre il luogo è spesso deciso sul passaparola. Nel suo caso, in provincia di Milano era arrivata una conoscente di mia mamma, giovanissima come lei, che del resto aveva 15 anni quand’è partita: le fece sapere che la famiglia di un medico cercava una persona che facesse da cameriera e così mia madre prese contatti, arrivò e cominciò a lavorare a tempo pieno, tantissimo. Poi si sposò e quando arrivai io fui adottato come fossi il nipotino. E li chiamavo nonni e davo loro del lei. Questa di mia madre è stata un’emigrazione fortunata: è arrivata in una famiglia dove ha comunque lavorato sodo e non le è stato regalato nulla, ma allo stesso tempo ha trovato un riferimento anche in caso di bisogno. Ora il medico e sua moglie (che è stata anche mia madrina di battesimo) non ci sono più. Erano legami forti, forse legami di altri tempi».
– Ti ricordi la tua prima venuta in Friuli?
«Io sono nato nel marzo ’66 e credo di essere venuto in Friuli la prima volta nell’agosto ’66, a cinque mesi insomma. Guardando anche le vecchie foto, le prime situazioni che mi ricordo sono all’età di tre anni a Grado Pineta e davanti alla casa del nonno Pietro a Malisana».
– Raccontaci la tua Malisana.
«Era il luogo più bello, quello in cui, quando partivo per Milano alla fine delle vacanze, non vedevo l’ora di tornare. Per vari motivi. Perché in qualche modo era un paese a misura di bambini. Arrivavo da Milano, dalla metropoli, dove non si giocava certo per strada, mentre Malisana dava la possibilità a noi bambini di giocare per strada anche fino alle 11 di di sera, con i genitori che erano tranquilli e sicuri: perché è un paese di gente per bene, ma anche perché era molto piccolo (allora aveva, credo, 800-900 abitanti), senza traffico e molto bello: era proprio a misura di bambino. Questo ha fatto nascere una sorta di sospensione del tempo, per cui tutt’ora, quando torno a Malisana, e purtroppo ci torno molto velocemente, è come se il tempo fosse rimasto sospeso, fermo all’ultima volta che ne ripartii al termine dell’ultima vacanza».
– Un luogo dell’anima, insomma...
«Sì, c’era questa sospensione del tempo. E c’è ancora adesso. Ci sono tornato ai primi di febbraio, dato che ero in Friuli per lavoro. Mi stupisco sempre nel vedere i cambiamenti che ovviamente il territorio ha: qualche casa in più costruita, quel passaggio a livello che finalmente non c’è più (un tempo già passare la ferrovia era un’impresa). Allo stesso tempo, però, la fabbrica rimane uguale. E poi le fontane! Per me Malisana era il paese dell’acqua: l’acqua che sgorga dal sottosuolo e che mi stupiva arrivando io da una città dove l’acqua si pagava e il rubinetto si chiudeva. Il ricordo forte è l’acqua clopa, l’acqua solforosa di Malisana. Ancora adesso, appena arrivo, la prima tappa è andare a bere l’acqua. È come riappropriarsi di quel gusto che ogni estate, quando tornavo, provavo intensamente. E poi rivedere le persone. Qualcuno purtroppo non c’è più, con alcuni compagni di giochi sono rimasto in contatto. E i cugini: i grandi amici erano loro! La famiglia era numerosa, per cui eravamo una bella banda di cugini. Rivedersi ancora adesso e vedersi anche addosso i segni del tempo che passa è comunque un tornare a quell’istante di allora. È come tenere dei punti di riferimento e dire: chissà, magari un giorno ci ritorno con la spensieratezza di allora. Ora avviene tutto di corsa».
– Ma è sempre un bel tornare...
«Sì».
– Quando oggi qualcuno ti dice Malisana, chi ti torna subito in mente?
«Il nonno, Pietro Passaro. Il nonno e la sua riservatezza. Lui era il sacrestano di Malisana e durante la Seconda guerra mondiale – ma questo l’ho scoperto dopo, perché lui mai ne parlava – è stato uno dei punti di riferimento per le forze alleate. Potendo salire sul campanile ( rischiando la pelle ogni volta) per andare a caricare l’orologio, riusciva in qualche modo a rompeva le regole del coprifuoco: accendeva la luce dicendo che altrimenti non sarebbe riuscito a caricare quel benedetto orologio. La luce sul campanile in realtà serviva agli aerei alleati per fare il punto, la posizione. Ma di questo il nonno non ha mai parlato: l’ho saputo da uno zio, lo zio Elvio, l’attuale punto di riferimento di tutta la famiglia e anche della storia locale, per le sue passioni e per la sua cultura. E poi di allora mi ricordo l’odore dello stabilimento chimico, le zanzare e i bambini, gli amici, il fatto di stare fino a tardi sulla strada, le corse in bicicletta, i tuffi nel Corno. La vita continuava nel resto dell’anno: io lasciavo un paese nelle condizioni di vacanza, ma poi durante l’anno Malisana sgobbava forte».
– Quando te ne tornavi a Milano era come se avessi fatto il pieno di belle cose...
«In realtà, me ne tornavo a Milano con una nostalgia struggente, perché fin da piccolo non vedevo l’ora di tornarci. Quindi le prime due settimane a Milano erano di una nostaglia forte, proprio da stare alla finestra e quasi avere la voglia di scappare e tornare indietro. Una nostalgia che non mi ha mai lasciato!».
– Forse perché lì c’è una radice tua?
«Forse sì. Non riconosco in me delle radici, e questo è anche il motivo che mi porta a girare con il lavoro: è una ricerca o una fuga, non lo so. Però Malisana è sicuramente un punto di riferimento, un faro per te che te ne stai, per esempio, in mezzo al deserto del Sahara ma hai la fortuna di aver avuto un punto di riferimento, un luogo tranquillo anche dell’anima come questo: grazie alle persone che lo abitano – parenti e amici –, che sono espressione di una terra, di un luogo che ha dato tantissimo al mondo, ma che sa ancora ricordare e ricambiare l’affetto ricevuto».
– È come quella luce che accendeva tuo nonno...
«Penso proprio di sì. Infatti, quando arrivi lì, lo sguardo va sempre al campanile. Anche perchè la chiesetta sta proprio al centro, nella piazzetta. Ma c’è un altro luogo che ricordo, che si allontana un po’ da Malisana: il Bar Bianco di Torviscosa. Lì si beveva un latte-cacao che era la fine del mondo: credo di averne bevuto ettolitri. E poi un altro zio, Giancarlo, lavorava proprio lì. E poi mi viene in mente il mare vicino, per cui quando con i miei genitori si veniva a Malisana si andava anche a Grado. Questo mi porta a un’altra considerazione sul tempo sospeso. Mi spiego. Quando ero piccolo, i miei viaggiavano sempre di notte, in auto, per evitare il traffico e perchè era più fresco: mi mettevano a dormire, poi alle due di notte mi prendevano, piccolissimo, dal letto e mi mettevano a dormire in macchina. Io mi svegliavo che ero a Malisana, così per me era come se ci fosse una continuità, come se fossi separato dal resto del mondo da una notte di sonno. Per cui era un po’ onirico arrivare a Malisana, perché mi mancava la strada. La prima volta che mi resi conto di quanto Malisana fosse relativamente lontana (370 chilometri da dove abito oggi) fu quando, a un ritorno, mi svegliai in auto mentre eravamo bloccati in autostrada: tra Malisana e la nostra vita del resto dell’anno non c’era una notte di sonno e di sogni, ma anche un percorso abbastanza faticoso».
– Malisana il perno e il faro. Da lì, poi, hai conosciuto anche il resto del Friuli, vero?
«Certo. Ho cominciato con i miei a girare. Grado come tappa turistica, però si dedicavano anche giornate a visitare l’interno, Udine, le colline. Ricordo il castello di Colloredo di Montalbano, dove tra l’altro c’era un enorme caprone: quando ero piccolo, un giorno ci andai con una maglietta rossa e quello mi caricò. Avevo cinque anni e per me questa cosa era enorme! E poi il terremoto. Il ’76 è stato un anno di angoscia tremenda. Ricordo che la sera del 6 maggio eravamo in casa a guardare un film di Mel Brooks, Il mistero delle 12 sedie, in bianco e nero. Cominciò a dondolare il lampadario. Eravamo a Milano, in provincia, eppure la scossa fu sentita anche qua. Finita la trasmissione, il telegiornale disse che c’era stato questo terremoto in Friuli. C’erano notizie di morti ma non si sapeva ancora null’altro. Non avevamo il telefono in casa, così andammo da una zia vicina: provammo a chiamare, ma non c’erano linee. La Bassa era stata per fortuna risparmiata dalla distruzione, però la zia Laura, la moglie di Giancarlo, mentre scappava con un’altra persona fu sfiorata dal camino caduto dal tetto. Quell’estate andammo comunque in vacanza dagli zii:loro non si arrendevano assolutamente e noi stessi non volevamo arrenderci a una forza della natura. Il nonno c’era ancora e lui aveva raccontato, anni prima, di un altro terremoto, avvenuto negli anni Trenta: il suo racconto fu la mia prima conoscenza del terremoto. Non ho avuto lutti né conoscenti coinvolti, però i miei cugini mi parlavano di compagni di scuola o di università che non c’erano più: questo mi spiegava quanto sia sottile il filo che lega alla vita. Ma c’era e c’è anche il grande orgoglio nel vedere la rinascita. Io non mi sento né friulano né lombardo e mi sento anche poco italiano girando così tanto il mondo, però sento sempre l’orgoglio di dire che comunque sono cresciuto in Friuli e che ho avuto questa fortuna. E ho provato orgoglio nel vedere come il Friuli sia rinato, come abbia avuto questa grande forza, dando un insegnamento che ancora adesso sarebbe utile ricordare, perché ritengo che l’Italia sia un Paese che vive a libertà condizionata: in Italia c’è una setta segreta armata che si chiama Camorra, ’Ndrangheta, Mafia. Tornando al Friuli, questa terra ha dimostrato come una società limpida, pulita e onesta soltanto con la propria forza sappia poi rimettersi in piedi. Non è poco con la distruzione e con il migliaio di morti che aveva avuto».
– Adesso il Friuli è crocevia, allora era l’ultima stazione...
«Sì, è vero, era proprio l’ultima stazione. Di allora mi rimane sempre questa sorta di mistero sospeso perché era la terra della guerra fredda, dove l’aeroporto di Ronchi non poteva avere tanti voli civili perché quella parte dello spazio aereo era militare».
– La terra dei silenzi.
«Certo. La terra dei silenzi, delle zone cui non si poteva accedere, delle colonne di carri armati. E poi anche la curiosità di andare in Jugoslavia. Ci siamo stati qualche volta in gita partendo da Malisana. Nel ’70, avevo 4 anni, andammo a visitare le grotte di Postumia e poi a fare un picnic in montagna. Mio padre, non sapendo leggere le indicazioni in serbo-croato, ci portò in una zona militare! Arrivarono immediatamente dei soldati di cui non comprendevamo nulla e loro non comprendevano niente di quanto dicevamo. Prima in malomodo, poi gentilmente, ci invitarono a raccogliere coperte e vettovaglie e ad andarcene al più presto!».
– Il tuo viaggio fa tappa adesso a Udine per il Premio Terzani. Come vivi la vigilia?
«So che stanno preparando una grande manifestazione. Penso che quella sera sarò molto emozionato e commosso, perchè il mio viaggio, quello che racconto anche nel libro, parte in realtà da Malisana: parte in qualche modo dall’esperienza di mio zio e di mia madre, della mia famiglia e degli altri che ho conosciuto e che sono emigrati. Percorrere la rotta dell’emigrazione attuale per me è stato un po’ come andare alla ricerca delle sorgenti del Nilo per rivivere quelle emozioni che mia madre Teresa nel 1957 può aver vissuto arrivando a 15 anni da sola in stazione centrale a Milano, o quelle di mio zio Mario salendo sulla motonave Africa nel 1954. Questa storia familiare mi ha aiutato nel mio lavoro di giornalista che va a cercare storie da raccontare agli altri. Mi ha aiutato a rivivere storie ed emozioni. Le rivivrò, con un po’ di timore, anche la sera del 17 maggio a Udine per la cerimonia del premio».