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venerdì 19 marzo 2021

Quarto Quaresimale della CP di San Giorgio di Nogaro 17 marzo 2021 «Avrete forza dallo Spirito Santo e mi sarete testimoni»

Commento alla parola
 «Avrete forza dallo Spirito Santo e mi sarete testimoni».


Una preghiera in ogni tempo

San Giorgio di Nogaro

17 marzo 2021


Dagli Atti degli Apostoli (1,6-14)

Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: "Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per

Israele?". Ma egli rispose: "Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma

riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la

Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra".

Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il

cielo mentre egli se ne andava, quand'ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: "Uomini di

Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo

stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo".

Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino

permesso in giorno di sabato. Entrati in città, salirono nella stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi: vi

erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo figlio di Alfeo,

Simone lo Zelota e Giuda figlio di Giacomo. Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad

alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui.


Spirito Santo, testimonianza e liturgia. Sono i tre termini che raccordano le suggestioni di

questa sera.

Non possiamo non partire dal testo della Parola di Dio che abbiamo ascoltato. È il racconto

dell’ascensione di Gesù secondo il libro degli Atti degli Apostoli. Il brano inizia con una

domanda da parte dei discepoli che riguarda il tempo, il tempo della piena realizzazione

del regno di Dio. Ma la risposta è subito spiazzante: tempi e momenti, a questo proposito,

non riguardano gli uomini perché spettano soltanto al Padre. Piuttosto, i discepoli

riceveranno la forza dello Spirito per essere testimoni a Gerusalemme e oltre

Gerusalemme, fino dove c’è mondo e umanità.

Poi il racconto sembra interessarsi dello spazio: Gesù viene elevato in alto mentre i

discepoli fissano lo sguardo su di lui, ma una nube lo sottrae ai loro occhi. Loro continuano

a guardare in alto, ma improvvisamente la scena cambia: non c’è più Gesù, ma due

messaggeri vestiti di bianco che pongono una domanda decisiva: «Perché state a guardare

il cielo?». Perché fissare il cielo se lui tornerà?

Il fatto che Gesù ritorni nella gloria crea la possibilità per i discepoli di giocare la loro

partita nella storia, di essergli testimoni in mezzo agli uomini, di continuare l’opera di Gesù

con azioni e parole nuove che hanno il sapore di Dio e della storia. Non saranno soli in

questo, ma avranno forza dallo Spirito che scenderà su di loro.

Sono evidenti i riferimenti spaziali e temporali in questo brano: i discepoli vogliono

conoscere tempi, ma a loro non è concesso; guardano in alto, ma questo sguardo è messo

in crisi dalla parola dei messaggeri celesti; dall’alto però verrà lo Spirito per la loro

testimonianza.

Nello spazio e nel tempo si dà la vita dell’uomo e proprio spazio e tempo sono le coordinate

di ogni liturgia e di un autentico celebrare. Si celebra nel tempo per creare una breccia nel

tempo e raggiungere così il tempo di Dio che è grazia, dono, e si abita uno spazio non per


rinchiudervi Dio, ma perché solo se varchiamo una soglia, se interrompiamo la vita

ordinaria, possiamo sperimentare una presenza che è sempre straordinaria rispetto a noi.

Celebrare è innanzitutto percepire diversamente il tempo (non più schiavi dell’orologio) e

abitare diversamente lo spazio (non ci basta un tetto) perché in questa diversità

sperimentiamo la presenza di colui che proprio perché è Altro ci dona la sua salvezza, ciò

che noi non possiamo produrre da soli.

Fino al ritorno glorioso del Signore la Chiesa è impegnata a testimoniare e celebrare; anzi,

a celebrare per poter davvero testimoniare. E quanto meglio celebra, tanto più la sua

testimonianza sarà relativa a Cristo e non a se stessa.

È interessante che il l’inizio della vita della Chiesa avvenga all’insegna di un’attiva

passività: gli apostoli tornano a Gerusalemme, dove si era compiuto il mistero pasquale, si

mettono in cammino quanto è permesso di sabato e si riuniscono, ma in questo “fare”

(convenire e pregare) essi si “lasciano fare” dall’azione dello Spirito che scende su di loro.

È il segreto di ogni liturgia: attività e passività, fare e lasciarsi fare, resistenza e resa. Anzi

nel fare del rito passa un’azione che ci sovrasta ed è quella di Dio, un’azione che non può

essere imbrigliata nelle nostre definizioni e che, appunto, ha bisogno, per essere percepit,

di un linguaggio particolare, che dice e non dice, vela e mostra nello stesso tempo: il

linguaggio simbolico.

Lo Spirito e la liturgia

Celebrare è in primo luogo aprirsi all’azione dello Spirito, il grande partner di una Chiesa

che vuole fare esperienza del mistero del Signore Gesù. Celebrare che significa agire in

modo particolare, attivare i linguaggi propri del rito, sospendere il quotidiano e lasciare

che irrompa la novità di Dio.

La liturgia apre un varco tutto speciale all’azione dello Spirito ogni volta che lo chiede

esplicitamente al Padre, soprattutto nella celebrazione eucaristica: «Ti preghiamo:

santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito/Ti preghiamo umilmente: per la

comunione al Corpo e al Sangue di Cristo, lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo» (PE

II). Una parola che dice apertura e anche un bisogno, accompagnata dal gesto della

imposizione delle mani. Le mani sono l’organo che opera, che plasma, che trasforma come

lo Spirito modella ogni vita.

In alcuni casi (si pensi ai riti ordinazione) l’invocazione dello Spirito è accompagnata dal

silenzio che, come affermava Romano Guardini, è «il primo presupposto di azione sacra».

Anche la Parola di Dio ci ricorda che Dio agisce e si esprime nel mormorio di un vento

leggero (cfr. 1 Re 19,12) e in gemiti inesprimibili (cfr. Rm 8,26). Il silenzio, in quanto

tacitamento di ogni inutile e dannoso rumore, è presenza di un Altro, è parola di un Altro.

In ogni Eucaristia c’è una particolare effusione dello Spirito affinché coloro che si nutrono

dell’unico Pane e dell’unico Calice diventino un corpo solo e siano testimoni di Cristo nel

mondo come afferma, in modo esplicito nella nuova traduzione, la PE III: «Lo Spirito

Santo faccia di noi un’offerta perenne a te gradita». L’Eucaristia è la Pentecoste

permanente della Chiesa.

... nel tempo

Nel tempo dell’uomo si apre una breccia perché accada il dono di Dio. Questo il senso

dell’anno liturgico che non è una rassegna dei fatti della vita di Gesù, ma in un certo senso,

è “sacramento” della presenza di Cristo che salva: in esso si ri-presenta il mistero di Cristo.

Ecco perché la liturgia spesso ci fa dire: “oggi”, («Oggi Cristo è nato!»). Non perché mentre

celebriamo fingiamo che quei fatti accadano oggi, ma perché celebrando annulliamo la

distanza temporale tra noi e quegli avvenimenti. L’anno liturgico, nel suo scorrere di

giorni, tempi e feste, fa spazio a Dio e al suo mistero che si è rivelato in Cristo e che opera


in noi per mezzo dello Spirito Santo. Possiamo dire che la nostra vita ordinaria, con i suoi

problemi e le sue conquiste, la sua organizzazione e le sue agende, viene regolarmente

smentita e dis-organizzata, sovvertita, dal ritornare e dal ripetersi delle feste e dei tempi; il

tempo dell’uomo è smentito dal tempo di Dio, la logica dell’avere e del possedere, così

sentita nella nostra epoca, è messa in discussione dalla logica del dono, anzi da Colui che si

è fatto Dono per noi facendosi uomo, annunciando il Regno di Dio, morendo in croce e

risuscitando e inviando a noi il Paraclito. Solo perché viviamo l’anno liturgico come un

tempo “altro”, diverso, possiamo ritornare nel nostro tempo, nelle nostre ore, così

impegnate e qualche volta preoccupate, con un sapore nuovo, da testimoni: «Quello che

era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri

occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita - la

vita infatti si manifestò, noi l'abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi

annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, quello che

abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in

comunione con noi» (1 Gv 1,1-3).

Da qui la necessità di curare il nostro celebrare, i suoi linguaggi, le sue soglie in modo che

appaia la qualità “originale” del tempo liturgico, non perché estraniante o distraente, ma

perché capace di generare percorsi di vita nuova per l’uomo e la donna che vivono nel

tempo.

In modo particolare alcuni aspetti sembrano di particolare rilievo e urgenza.


• «Oggi si compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4, 20)

LA PAROLA E IL TEMPO

La cura per la Parola di Dio non deve venir meno. Il Lezionario è più che un libro che

raccoglie i testi scritturistici da leggere: è la forma che la Parola acquista per il cammino

della Chiesa, è il modo attraverso il quale ogni domenica e ogni giorno la Parola di Dio

viene riconsegnata alla Chiesa. Pertanto, cura della proclamazione, canto del salmo

responsoriale e dell’acclamazione al Vangelo, cura del luogo della proclamazione

(ambone), gestione sapiente dell’omelia per raccordare la Parola che risuona “oggi” con la

vita degli uomini, sono atteggiamenti indispensabili affinché la Parola non sia soltanto

“testo” (o uno dei tanti testi?), ma gesto di Dio che parla oggi (Sacrosanctum Concilium 7:

«è lui [Cristo] che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura»).

Spesso si ha la sensazione che la liturgia della Parola sia una cosa che si deve fare, al

massimo un’introduzione catechistica al resto della Messa, e non invece l’azione dove Dio

continua “oggi” a rivelarsi. Azioni e parole, invece, cooperano per far riconoscere

esattamente questo “oggi” di Dio e dell’uomo ed è esattamente quanto si afferma

nell’acclamazione che conclude la proclamazione della letture bibliche «Parola di

Dio/Rendiamo grazie a Dio». Dopo che la Parola è stata proclamata non è il momento di

discutere o di fare ragionamenti raffinati. Semplicemente si acclama perché si riconosce un

dono sempre nuovo.

• «Gesù... si alzò a leggere» (Lc 4,16)

A SERVIZIO DEL MISTERO

Non si può abbassare la guardia sulla situazione ministeriale delle nostre comunità.

Occorre lavorare perché ci siano uomini e donne che si dedicano a far sì che tutta

l’assemblea possa partecipare al mistero. A questo servono i ministeri, i tanti servizi nella

liturgia. È necessario che uomini e donne mettano a disposizione il proprio carisma e che

questo carisma prenda la forma della liturgia con la competenza che è richiesta. È la


liturgia, infatti, con le sue strutture e i suoi linguaggi, a dirci quale ministero serva in quella

celebrazione e che cosa sia giusto fare.

La lettura biblica, il canto, il servizio all’altare, quello della cura dei luoghi, la preparazione

delle celebrazioni non possono essere lasciati all’improvvisazione, ma domandano

coordinamento e competenza, capacità di supervisione e di azione, senza protagonismi e

lungi da ogni esibizionismo. Abbiamo imparato da questi lunghi mesi la preziosità del

ministero dell’accoglienza che non può, però, riguardare soltanto chi indica il posto o

ricorda le norme sanitarie, ma anche chi offre un saluto e un sussidio e così introduce alla

celebrazione.

Accanto ai ministeri tradizionali sarà sempre più necessario riconoscere nuovi ministeri al

servizio della celebrazione secondo quanto le esigenze del nostro tempo richiedono (si

pensi ad esempio all’accompagnamento delle fasi oranti dei riti esequiali: si potrà ancora

continuare a chiedere al sacerdote tutto?; oppure la guida delle celebrazioni domenicali in

assenza di presbitero; la guida dei alcuni momenti della preghiera comunitaria: è avvilente,

a questo proposito, che se si ammala il parroco si sospenda la liturgia domenicale del

Vespro). Non sarà e non dovrà essere una soluzione di ripiego rispetto alla mancanza di

ministri ordinati, ma espressione autentica della crescita della Chiesa che sa porsi

docilmente in ascolto dello Spirito.

• «Egli vi mostrerà al piano superiore una sala, grande e arredata; lì preparate»

(Lc 22,12)

UNO SPAZIO PER CELEBRARE

Abbiamo bisogno di spazi per celebrare, di spazi accoglienti, funzionali, ma anche belli. E

soprattutto spazi dove l’occhio e il corpo si orientino volentieri verso quelli che sono i poli

decisivi della celebrazione: altare e ambone innanzitutto. Questi elementi devono essere

nobili, riconoscibili come luoghi dove Cristo si dona come Parola e come cibo e bevanda.

Spesso attorno e sopra all’altare si ammucchiano oggetti, sedie, piante. A volte l’altare

antico cattura lo sguardo e umilia l’unico altare, dove si celebra. A volte cartelloni e scritte

mortificano il luogo della Parola.

Curare lo spazio sempre e soprattutto nei tempi “forti” (penso in particolare alla

valorizzazione della croce in Quaresima e del cero nel tempo pasquale) significa favorire

quella percezione “diversa” del mistero: diversa rispetto al quotidiano e tipica di ogni

stagione dell’anno liturgico. Pensiamo alla sobrietà e allo “svuotamento” che deve

interessare anche lo spazio in questo tempo di Quaresima o alla festosità del tempo

pasquale e alla valorizzazione del fonte battesimale nei cinquanta giorni da Pasqua a

Pentecoste.

Si adegua lo spazio perché lo spazio plasma le nostre azioni e la nostra percezione.


• «Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli ulivi» (Mt 26,30)

CANTARE IL MISTERO

Una delle prime domande che ci si pone prima di una Messa è: «che cosa cantiamo oggi?».

È una domanda importante che rivela un atto di responsabilità. Infatti, si tratta di far

cantare quell’“oggi” che la liturgia pone al centro. Si tratta, in altri termini, di fare in modo,

che anche il registro canoro e musicale interpreti quell’“oggi”, lo faccia rivivere come unico,

affinché l’anno liturgico non sia semplice carrellata di contenuti, ma esperienza che forma

e trasforma. Allora nella progettazione dei tempi particolari dell’anno liturgico, ad

esempio, bisognerà evitare canti passe-partout e ricorrere a quei canti, che nel ritornare

ogni anno di quel giorno e di quel tempo, verranno percepiti come “nuovi”. Questo vale sia

per le parti mobili (i canti di ingresso, offertorio e comunione), sia per le parti fisse: perché


non riservare uno o più Alleluia per l’Avvento e il Natale e “quel” Santo per la Quaresima?

Perché non abituarci a cantare tutte le domeniche il Gloria che è inno festivo? Non è detto

che si debba cantare sempre tutto, ma è opportuno in determinati momenti dell’anno

privilegiare un elemento o l’altro.

In Avvento, Quaresima e nei tempi di Pasqua e Natale il canto iniziale non potrà essere

generico, ma un canto che davvero inizi, ovvero introduca nel mistero che si celebra. E

questo non per una o due domeniche, ma per tutta la durata del tempo. È triste non sentire

più canti pasquali in certe chiese dopo l’Ottava di Pasqua. Ed è triste sentire canti

cosiddetti “vocazionali” nella IV domenica di Pasqua, giornata mondiale di preghiera per le

vocazioni. Ma è innanzitutto domenica di Pasqua!

Non dimentichiamo quel materiale, apparentemente povero, ma che è l’ossatura della

liturgia, come i dialoghi, le litanie, le invocazioni, le acclamazioni, materiale che se ben

impiegato, scalda la celebrazione rendendo l’assemblea veramente partecipe e soggetto

della liturgia insieme con Cristo.

La nuova edizione del Messale ci esorta a cantare di più e a cantare il “gratuito”, il “non

necessario”, come le parti della PE. Può essere un valido invito a fare in modo che il

cantare la liturgia non sia semplice decorazione, ma atto di fede sincero, apertura

“cordiale” al mistero.

Papa Francesco così diceva nell’Udienza generale del 3 febbraio di quest’anno a proposito

della liturgia:

È un incontro con Cristo. Cristo si rende presente nello Spirito Santo attraverso i segni

sacramentali: da qui deriva per noi cristiani la necessità di partecipare ai divini misteri. Un

cristianesimo senza liturgia, io oserei dire che forse è un cristianesimo senza Cristo. Senza il

Cristo totale. Perfino nel rito più spoglio, come quello che alcuni cristiani hanno celebrato e

celebrano nei luoghi di prigionia, o nel nascondimento di una casa durante i tempi di

persecuzione, Cristo si rende realmente presente e si dona ai suoi fedeli.

Un cristianesimo senza liturgia è un cristianesimo senza Cristo perché non fa spazio

all’Oltre, all’ulteriore, al mistero di Dio. Un cristianesimo senza liturgia sarebbe un

argomentare continuo su se stessi.

Celebrare, allora, significa creare le premesse perché la nostra vita personale e comunitaria

si sporga sul dono di Dio affinché non ci costringa una religione dei diritti o dei doveri, ma

ci avvolga e ci trasformi di giorno in giorno l’esperienza viva dei doni di Dio.



Foglio della Collaborazione Pastorale Di San Giorgio di Nogaro

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