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venerdì 31 luglio 2009

Commento alla Parola 2 agosto 2009


Giovanni MariaVianney

4 agosto: 150 anni della morte del santo Curato d’Ars. Patrono dei parroci e dei sacerdoti

Contro la sua volontà di farsi prete sembra congiurare l’universo intero: la famiglia povera, il padre ostile, la Rivoluzione che scristianizza la Francia; poi Napoleone lo chiama soldato e lui diserta per non dover servire l’uomo che ha imprigionato papa Pio VII (lo salva il fratello François, arruolandosi al posto suo). Diventa infine prete a 29 anni nell’agosto 1815, mentre gli inglesi portano Napoleone prigioniero a Sant’Elena.

Ma i suoi studi sono stati un disastro, e non solo per la Rivoluzione: è lui che non ce la fa col latino, non sa argomentare né predicare... Per farlo sacerdote c’è voluta la tenacia dell’abbé Charles Balley, parroco di Ecully, presso Lione: gli ha fatto scuola in canonica, l’ha avviato al seminario, lo ha riaccolto quando è stato sospeso dagli studi. Dopo un altro periodo di preparazione, l’ha poi fatto ordinare sacerdote a Grenoble.

E Giovanni Maria Vianney, appena prete, torna a Ecully come vicario dell’abbé Balley, che però muore nel 1817. Allora lo mandano vicino a Bourg-en-Bresse, ad Ars, un borgo con meno di trecento abitanti, che diventerà parrocchia soltanto nel 1821.

Poca gente, frastornata da 25 anni di sconquassi. E tra questa gente lui, con un suo rigorismo male accetto, con la sua impreparazione, tormentato dal sentirsi incapace. Aria di fallimento, angoscia, voglia di andarsene...

Ma dopo alcuni anni ad Ars viene gente da ogni parte. Quasi dei pellegrinaggi. Vengono per lui, conosciuto in altre parrocchie dove va ad aiutare o a supplire parroci, specie nelle confessioni. Le confessioni: ecco perché vengono. Questo curato deriso da altri preti, e anche denunciato al vescovo per le “stranezze” e i “disordini”, è costretto a stare in confessionale sempre più a lungo.

E ormai ascolta anche il professionista di città, il funzionario, la gente autorevole, chiamata ad Ars dai suoi straordinari talenti nell’orientare e confortare, attirata dalle ragioni che sa offrire alla speranza, dai mutamenti che il suo parlare tutto minuscolo sa innescare.

E qui potremmo parlare di successo, di rivincita del curato d’Ars, e di una sua trionfale realizzazione. Invece continua a credersi indegno e incapace, tenta due volte la fuga e poi deve tornare ad Ars, perché lo aspettano in chiesa, venuti anche da lontano.

Sempre la messa, sempre le confessioni, fino alla caldissima estate 1859, quando non può più andare nella chiesa piena di gente perché sta morendo. Paga il medico dicendogli di non venire più: ormai le cure sono inutili. Annunciata la sua morte, "treni e vetture private non bastano più", scrive un testimone. Dopo le esequie il suo corpo rimane ancora esposto in chiesa per dieci giorni e dieci notti. Papa Pio XI lo proclamerà santo nel 1925.

Parole di Giovanni M. Vianney

Sul Sacerdote

Se avessimo fede, vedremmo Dio nascosto nel sacerdote come una luce dietro al vetro, come il vino mescolato all’acqua.

Quando il sacerdote è all’altare o sul pulpito, dovremmo guardarlo come se fosse Dio stesso!

Quanto è grande il sacerdote! Se egli comprendesse, morirebbe…. Dio gli ubbidisce: dice due parole e Nostro Signore scende dal cielo.

Il sacerdote non è sacerdote per sé. Non può assolvere se stesso. Non può amministrare sacramenti a se stesso. Egli non è per se stesso: è per voi.

Sulla sofferenza e la penitenza.

Possiamo diventare santi, se non con l’innocenza, almeno attraverso al penitenza.

Ci lamentiamo della sofferenza; avremmo ben più motivo di lamentarci se non soffrissimo, perché non vi è nulla che ci renda più simili a Nostro Signore. Oh, come è bella l’unione dell’anima con nostro Signore Gesù Cristo attraverso l’amore alla croce!

La Croce è la scala per il cielo.

La Croce è la chiave che apre la porta del cielo.

La Croce è la lampada che illumina il cielo e la terra.

Sulla povertà

Più ci rendiamo poveri per amor di Dio, più siamo veramente ricchi.

Non ho mai visto nessuno rovinarsi facendo opere buone.

Avete voglia di pregare il Buon Dio, di passare la vostra giornata in chiesa; ma pensate che sarebbe molto utile lavorare per i poveri che conoscete e che sono in grande necessità: questo è molto più gradito a Dio della vostra giornata passata ai piedi del santo Tabernacolo.

Se avete tanto, date tanto; de avete poco, date poco; ma date di cuore e con gioia.

Sulla preghiera

La preghiera non è altro che una unione con Dio. In questa intima unione, Dio e l’anima sono come due pezzi di cera che si fondono insieme.

Per pregare bene, non c’è bisogno di parlare tanto. Sappiamo che il Buon Dio è là, nel santo Tabernacolo: gli apriamo il nostro cuore, godiamo della sua santa presenza. È questa la migliore preghiera.

Dobbiamo pregare con molta semplicità e dire: «Mio Dio ecco un’anima molto povera, che non ha niente, non può far niente; fammi la grazia di amarti, di servirti e di riconoscere che sono un nulla».

Come parlava ai bambini e alle persone semplici

Il pesce. Tirate fuori dall’acqua un pesce: non potrà vivere. È così per l’uomo senza Dio!

Il cortile. L’anima che prega poco è come quegli uccelli da cortile che, pur avendo ali tanto grandi, non le sanno adoperare.

Il verme e il bruco. La lingua di un maldicente è come un verme che rode i buoni frutti, un bruco che insudicia i più bei fiori lasciandovi tracce della sua schiuma.

La candela. Avete visto questa notte la mia candela. Questa mattina, ha finito di bruciare. Dov’è andata? Non esiste più, è annientata. Così, i peccati che vengono assoliti, non esistono più, sono annientati.

La pioggia. La preghiera è per l’anima nostra quel che la pioggia è per la terra. Concimate un terreno quanto volete. Se manca la pioggia, tutto quello che potete fare non servirà a niente.

L’ape. Dopo la comunione l’anima si avvolge in un balsamo d’amore, coem l’ape nei fiori.

sabato 18 luglio 2009

Commento alla Parola 19 luglio 2009

Gesù, vero pastore

Di ritorno dalla missione, i discepoli si riuniscono attorno a Gesù e gli riferiscono dell’attività svolta. Sul suo esempio hanno compiuto delle opere (guarigioni, esorcismi) e hanno insegnato. L’invito loro rivolto da Gesù a ritirarsi in un luogo lontano dalla folla ricalca i ritiri notturni del Maestro dopo intense giornate, ma anche introduce il contesto del successivo episodio della moltiplicazione dei pani. La folla precede la barca dei discepoli sulla sponda dove è diretta e si presenta allo sguardo di Gesù come un gregge smarrito perché privo del pastore. L’immagine, classica nella Bibbia per designare il popolo di Dio, suggerisce che lui, Gesù, è il vero pastore: egli assume direttamente la guida del gregge trascurato da coloro che erano incaricati di pascerlo. La sua commozione è la stessa di Yhavè, buono e pietoso, le cui viscere fremono di tenerezza per Israele.


Gesù è guida del popolo prima di tutto con la parola che introduce alla comprensione del mistero del Regno: «Si mise a insegnare loro molte cose».

Nel nostro tempo si rifugge come una schiavitù l’adesione alla Verità rivelata, ma si è pronti a farsi servitori del “mito” di turno. Si sente oppressiva l’obbedienza all’autorità, ma ci si fa servilmente sudditi del leader in voga. Si invoca la libertà individuale e poi paradossalmente non si riesce a vivere senza intrupparsi. Questi leader, che cosa perseguono in realtà? A vantaggio di chi va la loro collocazione di preminenza?

Occorre chiederselo per non finire dispersi, sbandati, sfruttati, strumentalizzati, asserviti al desiderio personalistico di potenza di qualcuno. Oggi come ieri, il vero esercizio del potere è servizio, e chi lo detiene è guida autentica degli altri nella misura in cui è disposto a dare la vita per loro, a “patire-con” loro.

Cari pastori, un giorno il Signore vi chiederà conto se lo spirito che ha animato il vostro impegno politico è stato quello del servizio o quello del self-service. Capite che cosa significa tutto questo! «Fai strada ai poveri senza farti strada», scriveva don Milani al suo amico Fabbrini. Ma quante volte voi date l’impressione che, se non proprio il calcolo personale, almeno quello di parte prevalga su quello della comunità! Diversamente, non si spiegherebbero tante lotte all’ultimo sangue. Quando hanno all’origine il tarlo del profitto e il virus del tornaconto, meritano un solo nome: sacrilegio! Ed è allora che dovrebbe risuonarvi come una condanna il lamento del Signore: «Ho compassione di questo popolo: mi sembra un gregge senza pastore» (Mc 8,2).

Cari amici, io credo che le cose cambierebbero molto nelle nostre città se ognuno applicasse a sé le parole che Gesù attribuiva alla sua persona: « Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece.., vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge... egli è un mercenario e non gli importa delle pecore» (Gv 10,1 2s.). Coraggio!

entite quel che diceva il sindaco La Pira ai consiglieri comunali di Firenze il 24 settembre 1954: «Voi avete nei miei confronti un solo diritto: quello di negarmi la fiducia! Ma non avete il diritto di dirmi: Signor sindaco, non si interessi delle creature senza lavoro (licenziati o disoccupati), senza casa (sfrattati), senza assistenza (vecchi, malati, bambini)... E mio dovere fondamentale. Se c’è uno che soffre, io ho un dovere preciso: intervenire in tutti i modi, con tutti gli accorgimenti che l’amore suggerisce e che la legge fornisce, perché quella sofferenza sia o diminuita o lenita. Altra norma di condotta, per un sindaco in genere e per un sindaco cristiano in specie, non c’è» (da Vegliare nella notte, di Antonino Bello)

PREGHIERA

Oggi ti prego, Signore, per i potenti di questo mondo, per gli uomini di governo, per tutti coloro che a vario titolo hanno la responsabilità di guidare altre persone. Aiutali a vivere il loro compito come servizio agli altri: che non li ingannino con discorsi demagogici, che non li deludano con promesse non realistiche, che non li sfruttino facendo loro credere di operare per il bene di tutti.

Dona loro il tuo Spirito, perché imparino da te il rispetto, l’attenzione, la partecipazione ai veri bisogni della gente.

Aiuta anche chi non è coinvolto a tempo pieno in un impegno diretto, politico o sociale, a non stare tranquillo, a non assumere atteggiamenti di delega passiva, ma a dare il proprio contributo di competenza e solidarietà.

domenica 5 luglio 2009

Commento alla Parola domenica 5 Luglio 2009


LO SCANDALO VINCENTE DEL PROFETA


Io ti mando a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me… sono figli testardi e dal cuore indurito… sono una genìa di ribelli”. Con un linguaggio, che oggi sarebbe subito considerato ‘politicamente scorretto’, il Signore ha inviato il giovane Ezechiele (I lettura) ad essere profeta tra gli Israeliti (VI sec. a.C.) deportati in schiavitù a Babilonia. Il linguaggio duro indica la difficile missione di essere profeta. Era difficile allora; lo è stato per Gesù (Vangelo) e per Paolo (II lettura). Essere profeta di Dio, portatore del Vangelo di Gesù, è stata sempre una missione ardua in ogni epoca e latitudine. Senza il prurito di cercarsi aureole di eroismo, la storia offre prove copiose di tali difficoltà.

Il profeta autentico non è mai un auto-candidato, ma un chiamato da Dio, che lo manda. Spesso la chiamata di Dio avviene a tappe, che aiutano a comprendere il senso e la portata di una vocazione. Così è avvenuto per Abramo, Mosè, Gesù stesso, i Dodici apostoli, Paolo e tanti altri. Per Ezechiele la chiamata ha almeno tre momenti: in primo luogo, la visione del “carro del Signore” in una scenografia ricca di immagini di non facile comprensione. Segue la chiamata vera e propria, espressa in termini diretti: è Dio che interviene e abita nel profeta; questi si alza in piedi, ascolta la voce di Dio che lo manda a quei “figli testardi e dal cuore indurito”. Ma il profeta - è il terzo momento della vocazione - non deve aver paura, non deve lasciarsi impressionare dalle facce di quella genia di ribelli, che sono come cardi, spine, scorpioni… Egli si presenta a loro, forte della Parola che ha mangiato: il rotolo della Parola diventa per la sua bocca dolce come il miele. Il profeta avrà una “faccia tosta”: non dirà parole sue, ma solo quelle che avrà ascoltate dal Signore e che avrà accolte nel suo cuore. In questo modo egli sarà sentinella fedele e coraggiosa nel trasmettere i messaggi di Dio. Ascoltino o non ascoltino!

Paolo è un modello di profeta, scelto dal Signore per una missione di primo annuncio del Vangelo ai pagani. Una missione che egli ha realizzato con determinazione, generosità, ampiezza di orizzonti geografici e culturali, in mezzo a prove di ogni genere. È stata una missione coraggiosa, ma vissuta, al tempo stesso, nell’umiltà e debolezza, con una spina nella carne. Ha pregato insistentemente per esserne liberato, ma alla fine ha compreso che la grazia del Signore era in lui. E ancor più, che la missione è più forte e più vera quando si realizza nella debolezza: negli oltraggi, difficoltà, persecuzioni, angosce sofferte per Cristo. Perché in tal modo appare chiaramente che missione e vocazione sono opera di Dio e non invenzioni umane. L’esperienza storica dei missionari e delle Chiese da loro fondate e sostenute danno prova di questo paradosso, sul quale solo il mistero di Cristo getta un po’ di luce.

Sembrerebbe logico che almeno la missione profetica del Figlio di Dio in carne umana fosse chiara per tutti, accettata senza rifiuti né contestazioni. Invece, proprio nella sua patria, tra i suoi, Gesù fu incompreso e, più tardi, nella città santa di Gerusalemme fu eliminato in un complotto ordito dai suoi avversari religiosi e politici. A Nazaret la gente, stupita, oscilla tra varie interpretazioni: si pone ben cinque domande circa l’identità di Gesù, passando dalla sorpresa allo scandalo, alla gelosia e fino al rifiuto di quel concittadino, che appare troppo divino (sapienza, prodigi…), ma, al tempo stesso, troppo umano (falegname, uno come loro, di famiglia ben conosciuta…). Data l’incredulità di molti, Gesù, a malincuore, è obbligato a limitarsi: compie solo poche guarigioni.

Nonostante la chiusura e l’incomprensione di quegli abitanti, Gesù risponde con un duplice segno: percorre i villaggi d’intorno, si commuove al vedere la gente, insegna loro molte cose; chiama i Dodici e li manda a due a due tra la gente, dando anche a loro “potere sugli spiriti immondi”. Anche i Dodici, venuto il tempo della loro missione piena sulle strade del mondo, vivranno le stesse esperienze del loro Maestro: incontreranno riconoscimenti e accettazioni, ma, più spesso, incomprensioni e persecuzioni, sospetti e disprezzo, assieme a malattie e difetti personali. Sono le alterne vicende della vita di ogni missionario, chiamato a seguire i passi di Gesù, che aveva predetto: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola…”. E sempre con la certezza di Paolo: la potenza di Cristo e del suo piano di salvezza “si manifesta pienamente nella debolezza”. Attraverso la fragilità degli strumenti umani, appare più chiaramente che la forza della missione viene da Dio. È questo lo scandalo del profeta; è lo scandalo vincente della croce.


PREGHIERA

O Padre, vogliamo ringraziarti per averci fatto proprio così: creature fragili e mortali, ma uscite dalle tue mani, che portano l’impronta di te. Di fronte alla tua parola che chiama «beati» quelli che non si scandalizzano di te e del Figlio tuo, ti consegniamo tutti i nostri dubbi, la nostra incredulità, le paure di fronte al manifestarsi della nostra debolezza, la quale ci ricorda in continuazione che siamo fatti di terra, sebbene il nostro desiderio sia l’infinito.

Non vogliamo essere tra coloro che non hanno potuto contemplare le tue meraviglie, perché troppo ripiegati a esaminare la propria umanità, a considerare i propri limiti e quelli altrui: liberaci dalla paura dell’uomo! Donaci il tuo sguardo di Padre e di Madre che ha generato la sua splendida creatura, il tuo sguardo rassicurante e fraterno di Salvatore, reso solidale con noi per opera dello Spirito, per accogliere, in questo stesso amore di perdono e compassione, noi stessi e ogni uomo e donna come tuo inestimabile dono.

sabato 20 giugno 2009

Commento alla parola domenica 21 giugno 2009


NON AVETE ANCORA FEDE?


Lo schema letterario del vangelo di questa domenica, parte da una situazione di pericolo (la tempesta), passa attraverso l’invocazione fiduciosa dei discepoli spaventati «Maestro, non t’importa che moriamo?», per concludersi con l’intervento di Gesù sulla natura e con la duplice domanda circa la fede: domanda innanzitutto di Gesù: «Non avete ancora fede?», e domanda dei discepoli: «Chi è dunque costui...?». La domanda fondamentale a cui il racconto conduce è proprio quella finale: Chi è Gesù?

La signoria di Gesù sulle acque che tumultuano e minacciano rinvia certamente, nel linguaggio e nel simbolismo biblico, alle acque dell’esodo, quando Dio si rivelò al suo popolo, attraverso Mosè, come “liberatore”’. L’evangelista Matteo, infatti, nella sua redazione dello stesso episodio coglie bene questo parallelismo e usa, a proposito di Gesù, il verbo “salvare”: Gesù si rivela ora il vero “salvatore”! Marco, invece, lascia in sottofondo questo collegamento, per mettere in risalto la “reazione” degli uomini: egli pone al centro dell’attenzione il tema della fede. «Non avete ancora fede?», chiede infatti Gesù ai discepoli. Essi sono ancora dominati dalla loro paura.

E interessante notare che qui sembra esserci, nel testo, una contraddizione: Gesù interroga i discepoli a proposito della loro “fede” proprio quando essi si sono rivolti a lui apparentemente con fede: «Maestro, non t’importa che moriamo?». L’apparente contraddizione scompare se si riflette su quello che muove la “fede” dei discepoli: essi chiedono un intervento “interessato”, ciò che li muove è la preoccupazione per la loro pelle, essi sono ancora dominati dall’interesse a ottenere “qualcosa”.

Così sono anche tante nostre preghiere di domanda, espressione di una fede ancora molto imperfetta e che chiede “miracoli”. Sembra quasi che Gesù, nel testo di Marco, spinga i discepoli d’ogni tempo a una purificazione della loro fede e dell’immagine di Dio che la fonda: il Dio del vero credente sta oltre il mondo degli interessi terreni e le sue “leggi”, e quindi non può essere raggiunto solo a partire da questo mondo.

La fede è essere afferrati da ciò che ci riguarda incondizionatamente. L’uomo è, come ogni altro essere vivente, turbato dalla preoccupazione per molte cose, soprattutto dalla preoccupazione per quelle cose che condizionano la sua vita, come il cibo e la casa. E, a differenza degli altri esseri viventi, l’uomo ha anche bisogni sociali e politici. Molti di essi sono urgenti, alcuni molto urgenti e ognuno di essi può riguardare le cose quotidiane d’importanza essenziale tanto per la vita di ogni singolo uomo, quanto per quella di una comunità. Quando ciò accade, richiede la totale dedizione di colui che risponde affermativamente a questa pretesa; e ciò promette totale realizzazione, anche se tutte le altre esigenze dovessero essere sottomesse a essa o abbandonate per amor suo.

La fede, in quanto essere afferrati da ciò che ci riguarda incondizionatamente, è un atto di tutta la persona. Si verifica al centro della vita personale e abbraccia tutte le sue strutture. La fede è l’atto più profondo e più completo di tutto lo spirito umano [...]. Tutte le funzioni dell’uomo sono riunite nell’atto di fede (P. Tillich).


Apertura dell’Anno Sacerdotale

Il Sacerdozio è l'amore del cuore di Gesù”, soleva dire il Santo Curato d’Ars. Questa toccante espressione ci permette di evocare con tenerezza e riconoscenza l’immenso dono che i sacerdoti costituiscono non solo per la Chiesa, ma anche per la stessa umanità”: è uno dei pensieri iniziali della lettera con la quale Benedetto XVI introduce la Chiesa all’ANNO SACERDOTALE, che si è aperto il 19 giugno, giornata dedicata alla preghiera per la santificazione del clero. “Penso a tutti quei presbiteri che offrono ai fedeli cristiani e al mondo intero l’umile e quotidiana proposta delle parole e dei gesti di Cristo, cercando di aderire a Lui con i pensieri, la volontà, i sentimenti e lo stile di tutta la propria esistenza”, prosegue il Papa, sottolineando le “innumerevoli situazioni di sofferenza in cui molti sacerdoti sono coinvolti, sia perché partecipi dell’esperienza umana del dolore nella molteplicità del suo manifestarsi, sia perché incompresi dagli stessi destinatari del loro ministero: come non ricordare i tanti sacerdoti offesi nella loro dignità, impediti nella loro missione, a volte anche perseguitati fino alla suprema testimonianza del sangue?”.

sabato 13 giugno 2009

Commento alla parola domenica 14 giugno 2009





Prendete e Mangiate...




In Marco l’istituzione dell’eucaristia, celebrata nel contesto dell’Ultima cena del Signore con i suoi discepoli, è così legata alla morte del Signore da esserne, oltre che un’anticipazione sacramentale, anche una profezia.

Infatti Gesù, nell’intimità del cenacolo e prima della sua passione, sia con le parole sia con i gesti, attua quello che annuncia. Il pane spezzato e il calice che offre ai suoi discepoli, come richiedeva l’uso della pasqua ebraica, sono l’annuncio del nuovo patto, suggellato dal suo sangue, che, quale «agnello senza macchia», offre per la salvezza di tutti. E impone ai suoi di rinnovare quest’azione per tutti fino a quando ritornerà di nuovo tra di loro.

La chiesa, obbediente a questo comando, fa questo sacrificio e così «annuncia la morte del Signore, proclama la sua risurrezione e attende la sua venuta nella gloria». Cristo, in modo mirabile, rimane in mezzo ai suoi, li fa partecipi al sacrificio di redenzione e si fa cibo e bevanda per il loro nutrimento spirituale. Nutriti del Corpo e Sangue del loro Redentore, tutti i redenti diventano «un solo corpo e un solo spirito

in Cristo».

Tutto questo avviene attraverso la potenza dello Spirito che fa sì che tutti i credenti diventino in Cristo un sacrificio vivente a gloria di Dio Padre. L’Eucaristia è il preannunzio della piena partecipazione alla vita di Dio nell’eternità e il pegno di vita eterna, perché chi mangia il suo corpo e beve il suo sangue ha già la vita eterna in sé e l’avrà pienamente nell’eternità.

Vivere la messa

L’espressione è diventata oramai un luogo comune. Ma non basta mai: specialmente in un periodo come il nostro, in cui il cristianesimo è sottoposto a un lavoro di essenzializzazione, in cui è diminuita ogni struttura e aiuto dall’esterno, è più che mai urgente l’insistenza su queste idee “essenziali”. E urge insegnare in che modo concretamente l’eucaristia possa e debba essere calata nella vita di ogni giorno, in che modo possa e debba davvero diventare quella luce che dà spiegazione e significato alle vicende umane.

Chi non ha nulla da offrire-soffrire, non può “partecipare” all’Eucaristia: Cristo soffre e si immola, anche noi dobbiamo soffrire-immolarci con lui. E questi sentimenti vittimali sono l’anima della messa. Come si può applicare alla vita questa dottrina? Con un metodo molto semplice: spesso le nostre giornate lavorative sono piene di croci: il freddo, il caldo, la stanchezza; contrattempi, insuccessi, incomprensioni; malattie, noie, solitudini; scoraggiamenti, depressioni, angosce: si tratta di un materiale preziosissimo da offrirsi durante la messa, che - per dirla con il concilio di Trento - dai dolori di Cristo assume valore, da Cristo è offerto al Padre e per amore della passione di Cristo è accettato dal Padre. Saper accettare pazientemente la vita, è vivere il sacrificio della messa.

Vivere la comunione. Si tratta di un altro assioma classico che implica far diventare “mistica” l’unione sacramentale durante la giornata lavorativa: la quale deve diventare un continuo “rimanere in Cristo”. In questo modo si prolunga “misticamente” la comunione: si deve prendere l’abitudine di lavorare, parlare, pensare in-con-per Cristo; si tratta di prendere l’abitudine di fare tutto sotto l’influsso, più attuale-continuo che sia possibile, di Cristo. Bisogna esercitarsi a chiedersi frequentemente: «Come si comporterebbe Cristo se fosse al mio posto?». Bisogna prendere l’abitudine di “commisurarsi” con lui (A. Dagnino).

PREGHIERA


Gesù, tu mi dici che il tuo corpo «è vero cibo»

e il tuo sangue «vera bevanda»:

come vorrei che queste parole fossero davvero creative,

cioè producessero ciò che significano!

Come vorrei diventare come un’umanità aggiunta alla tua:

lasciarmi assimilare da te in modo da poter dire con Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me».

Non più io che penso-parlo-agisco, ma tu che pensi-agisci-parli in me e con me!

Capisco bene che sei tu «il Verbo della vita» e perciò in proporzione che io aderirò a te, solo allora la mia vita sarà vera, perché piena di te. Tu mi dici: «Chi si ciba di me, io rimango in lui e lui in me»:

come vorrei lavorare, pensare, parlare, rimanendo in te!

Tu mi dici: «Senza di me, non potete fare nulla»!

Come vorrei non fare per davvero “nulla” senza essere ispirato, comandato, informato da te!

Se tutto in me fosse “cristocomandato”, un po’ alla volta la mia voce, così spesso alterata e nervosa, assumerebbe il timbro dolce e soave, mite e mansueto della tua, voce del buon pastore!

Foglio della Collaborazione Pastorale Di San Giorgio di Nogaro

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