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martedì 14 settembre 2021

La realtà tra sorrisi e lacrime nel nuovo Sorrentino

 

In  «È stata la mano di Dio» il regista si racconta con un inedito  registro narrativo  

di Gaetano Vallini

Il Paolo Sorrentino che non ti aspetti, capace di mettere da parte l’esuberante visionaria autorialità diventata il suo tratto caratteristico, per uno sguardo più intimo. È stata la mano di Dio, l’ultimo suo film, presentato alla mostra del cinema di Venezia, sorprende, dunque, piacevolmente, perché mostra un lato inedito del regista napoletano, che mette da parte la finzione per piegarsi al reale, ritenuto questa volta degno di essere mostrato, senza stravolgimenti. E forse non poteva essere diversamente, visto che quella che sceglie di raccontare è una storia personale, un passaggio fondamentale della sua vita.  

Così, in un intreccio di realtà e fantasia, Sorrentino torna indietro nel tempo, nella Napoli degli anni Ottanta travolta dalla favola calcistica legata all’arrivo di Maradona e a quell’anno particolare che lo segnò profondamente. Affidandosi all’impacciato e solitario diciassettenne Fabietto, suo doppio, il regista ricostruisce uno spaccato di vita familiare piuttosto ordinaria, sia pure segnata da alcune figure pittoresche e situazioni  talvolta sopra le righe. Ci sono i pranzi interminabili, le gite in barca con i parenti, le scenate tra coniugi per presunte o reali infedeltà, cui non si sottraggono neppure i genitori, Saverio e Maria, i quali nonostante tutto continuano ad amarsi.  E poi c’è Patrizia, uno dei personaggi inventati del film, zia mentalmente disturbata ma attraente, di cui il giovane è infatuato, che con la capacità di vedere la vita nella sua drammaticità, in netto contrasto con la leggerezza che pervade il resto della famiglia, sembra la sola a comprenderlo veramente.

Una vita normale, che nonostante tutto a Fabietto piace, ma che viene stravolta bruscamente da una tragedia familiare: la morte improvvisa dei genitori. E qui la realtà prende il sopravvento. Sorrentino perse il padre e la madre per un avvelenamento da monossido di carbonio mentre in un fine settimana si trovavano in una casa di villeggiatura. Avrebbe dovuto essere lì anche lui, se non avesse ottenuto il permesso di andare a vedere la partita del Napoli e seguire il suo idolo.

Sorrentino da allora è convinto di essere stato salvato da Maradona, da una sorta di forza protettrice scaturita da quel calciatore venerato dai tifosi napoletani quasi fosse una divinità: non era forse sua “la mano di Dio” che “vendicò” l’Argentina con l’Inghilterra dopo la guerra per le isole Malvine-Falkland nella celebre partita dei mondiali del 1986 in cui segnò il gol rubato più famoso e quello più bello della storia?

Come il giovane Paolo, anche Fabietto, divenuto orfano, cerca un modo per sfuggire al dolore, alla tragedia che lo catapulta in una realtà inattesa, costringendolo repentinamente a decidere del proprio destino. Fabietto deve crescere, diventare Fabio, capire chi e cosa vorrà essere. Comincia a pensare al cinema come a una distrazione, se non addirittura come a una forza in grado di riscattare tutto. E in questo snodo cruciale troverà nello sceneggiatore e regista Antonio Capuano – nella realtà vero mentore di Sorrentino - un’appassionata quanto brutale guida.

È stata la mano di Dio - prodotto da Netflix, che lo manderà in onda sulla sua piattaforma dal 15 dicembre dopo un passaggio nelle sale a partire dal 24 novembre - è una commedia che precipita nella tragedia; si sorride, anche di gusto, travolti dalla napoletanità prorompete e ineguagliabile di certi personaggi, e ci si commuove per la sincerità che emerge nelle scene in cui si coglie la sofferenza interiore del giovane protagonista. E proprio il riso serve a sciogliere il dolore prima che diventi insopportabile.

Grazie ad attori che lo assecondano con grande bravura – in particolare la rivelazione Filippo Scotti (Fabietto), Luisa Ranieri (Patrizia) e i ben collaudati Toni Servillo (Saverio) e Teresa Saponaro (Maria) – Sorrentino rivela un’inattesa franchezza di racconto. Attingendo ai ricordi del passato e all’esperienza interiore, il regista di La grande bellezza e della serie The Young Pope rinuncia al suo originale stile narrativo per un linguaggio più misurato, minimalista pur nelle meticolosità di certe ricostruzioni, anche se nel film non mancano, soprattutto all’inizio e alla fine, sprazzi di apprezzabile “sorrentinismo”.

Un film in qualche modo catartico per lo stesso regista, che nel mettere in scena una  storia di formazione non teme di rivelarsi intimamente,  spingendosi in un territorio finora inesplorato dal suo cinema. Non tutto ciò che si vede è accaduto davvero, ha precisato il regista, “ma è del tutto autentico nel riflettere quello che ho veramente provato in quel periodo del passato”. E proprio in questo sta la forza della pellicola, che però va oltre, portando il regista a riflettere anche su quello che è stato il suo percorso professionale.   Un film sui sentimenti, dunque, ma anche sul cinema, oltre che un omaggio a quella Napoli in cui non girava da vent’anni, dai tempi di L’uomo in più.

Difficile dire se È stata la mano di Dio forse modificherà il linguaggio cinematografico di Sorrentino – troppo marcata è la sua cifra stilistica – ma questa repentina deviazione, che probabilmente non sarà pienamente apprezzata dai più appassionati estimatori del regista, lo avvicinerà un po’ di più a quanti trovano invece eccessivamente estetizzante il suo cinema. E se anche si trattasse solo di una parentesi – comunque  meritevole di ulteriori opportunità - il risultato ottenuto è decisamente pregevole.

©L’Osservatore Romano del 9 settembre 2021

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