Commento alla parola «Avrete forza dallo Spirito Santo e mi sarete testimoni».
Una preghiera in ogni tempo
San Giorgio di Nogaro
17 marzo 2021
Dagli Atti degli Apostoli (1,6-14)
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: "Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per
Israele?". Ma egli rispose: "Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma
riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la
Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra".
Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il
cielo mentre egli se ne andava, quand'ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: "Uomini di
Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo
stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo".
Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino
permesso in giorno di sabato. Entrati in città, salirono nella stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi: vi
erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo figlio di Alfeo,
Simone lo Zelota e Giuda figlio di Giacomo. Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad
alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui.
Spirito Santo, testimonianza e liturgia. Sono i tre termini che raccordano le suggestioni di
questa sera.
Non possiamo non partire dal testo della Parola di Dio che abbiamo ascoltato. È il racconto
dell’ascensione di Gesù secondo il libro degli Atti degli Apostoli. Il brano inizia con una
domanda da parte dei discepoli che riguarda il tempo, il tempo della piena realizzazione
del regno di Dio. Ma la risposta è subito spiazzante: tempi e momenti, a questo proposito,
non riguardano gli uomini perché spettano soltanto al Padre. Piuttosto, i discepoli
riceveranno la forza dello Spirito per essere testimoni a Gerusalemme e oltre
Gerusalemme, fino dove c’è mondo e umanità.
Poi il racconto sembra interessarsi dello spazio: Gesù viene elevato in alto mentre i
discepoli fissano lo sguardo su di lui, ma una nube lo sottrae ai loro occhi. Loro continuano
a guardare in alto, ma improvvisamente la scena cambia: non c’è più Gesù, ma due
messaggeri vestiti di bianco che pongono una domanda decisiva: «Perché state a guardare
il cielo?». Perché fissare il cielo se lui tornerà?
Il fatto che Gesù ritorni nella gloria crea la possibilità per i discepoli di giocare la loro
partita nella storia, di essergli testimoni in mezzo agli uomini, di continuare l’opera di Gesù
con azioni e parole nuove che hanno il sapore di Dio e della storia. Non saranno soli in
questo, ma avranno forza dallo Spirito che scenderà su di loro.
Sono evidenti i riferimenti spaziali e temporali in questo brano: i discepoli vogliono
conoscere tempi, ma a loro non è concesso; guardano in alto, ma questo sguardo è messo
in crisi dalla parola dei messaggeri celesti; dall’alto però verrà lo Spirito per la loro
testimonianza.
Nello spazio e nel tempo si dà la vita dell’uomo e proprio spazio e tempo sono le coordinate
di ogni liturgia e di un autentico celebrare. Si celebra nel tempo per creare una breccia nel
tempo e raggiungere così il tempo di Dio che è grazia, dono, e si abita uno spazio non per
rinchiudervi Dio, ma perché solo se varchiamo una soglia, se interrompiamo la vita
ordinaria, possiamo sperimentare una presenza che è sempre straordinaria rispetto a noi.
Celebrare è innanzitutto percepire diversamente il tempo (non più schiavi dell’orologio) e
abitare diversamente lo spazio (non ci basta un tetto) perché in questa diversità
sperimentiamo la presenza di colui che proprio perché è Altro ci dona la sua salvezza, ciò
che noi non possiamo produrre da soli.
Fino al ritorno glorioso del Signore la Chiesa è impegnata a testimoniare e celebrare; anzi,
a celebrare per poter davvero testimoniare. E quanto meglio celebra, tanto più la sua
testimonianza sarà relativa a Cristo e non a se stessa.
È interessante che il l’inizio della vita della Chiesa avvenga all’insegna di un’attiva
passività: gli apostoli tornano a Gerusalemme, dove si era compiuto il mistero pasquale, si
mettono in cammino quanto è permesso di sabato e si riuniscono, ma in questo “fare”
(convenire e pregare) essi si “lasciano fare” dall’azione dello Spirito che scende su di loro.
È il segreto di ogni liturgia: attività e passività, fare e lasciarsi fare, resistenza e resa. Anzi
nel fare del rito passa un’azione che ci sovrasta ed è quella di Dio, un’azione che non può
essere imbrigliata nelle nostre definizioni e che, appunto, ha bisogno, per essere percepit,
di un linguaggio particolare, che dice e non dice, vela e mostra nello stesso tempo: il
linguaggio simbolico.
Lo Spirito e la liturgia
Celebrare è in primo luogo aprirsi all’azione dello Spirito, il grande partner di una Chiesa
che vuole fare esperienza del mistero del Signore Gesù. Celebrare che significa agire in
modo particolare, attivare i linguaggi propri del rito, sospendere il quotidiano e lasciare
che irrompa la novità di Dio.
La liturgia apre un varco tutto speciale all’azione dello Spirito ogni volta che lo chiede
esplicitamente al Padre, soprattutto nella celebrazione eucaristica: «Ti preghiamo:
santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito/Ti preghiamo umilmente: per la
comunione al Corpo e al Sangue di Cristo, lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo» (PE
II). Una parola che dice apertura e anche un bisogno, accompagnata dal gesto della
imposizione delle mani. Le mani sono l’organo che opera, che plasma, che trasforma come
lo Spirito modella ogni vita.
In alcuni casi (si pensi ai riti ordinazione) l’invocazione dello Spirito è accompagnata dal
silenzio che, come affermava Romano Guardini, è «il primo presupposto di azione sacra».
Anche la Parola di Dio ci ricorda che Dio agisce e si esprime nel mormorio di un vento
leggero (cfr. 1 Re 19,12) e in gemiti inesprimibili (cfr. Rm 8,26). Il silenzio, in quanto
tacitamento di ogni inutile e dannoso rumore, è presenza di un Altro, è parola di un Altro.
In ogni Eucaristia c’è una particolare effusione dello Spirito affinché coloro che si nutrono
dell’unico Pane e dell’unico Calice diventino un corpo solo e siano testimoni di Cristo nel
mondo come afferma, in modo esplicito nella nuova traduzione, la PE III: «Lo Spirito
Santo faccia di noi un’offerta perenne a te gradita». L’Eucaristia è la Pentecoste
permanente della Chiesa.
... nel tempo
Nel tempo dell’uomo si apre una breccia perché accada il dono di Dio. Questo il senso
dell’anno liturgico che non è una rassegna dei fatti della vita di Gesù, ma in un certo senso,
è “sacramento” della presenza di Cristo che salva: in esso si ri-presenta il mistero di Cristo.
Ecco perché la liturgia spesso ci fa dire: “oggi”, («Oggi Cristo è nato!»). Non perché mentre
celebriamo fingiamo che quei fatti accadano oggi, ma perché celebrando annulliamo la
distanza temporale tra noi e quegli avvenimenti. L’anno liturgico, nel suo scorrere di
giorni, tempi e feste, fa spazio a Dio e al suo mistero che si è rivelato in Cristo e che opera
in noi per mezzo dello Spirito Santo. Possiamo dire che la nostra vita ordinaria, con i suoi
problemi e le sue conquiste, la sua organizzazione e le sue agende, viene regolarmente
smentita e dis-organizzata, sovvertita, dal ritornare e dal ripetersi delle feste e dei tempi; il
tempo dell’uomo è smentito dal tempo di Dio, la logica dell’avere e del possedere, così
sentita nella nostra epoca, è messa in discussione dalla logica del dono, anzi da Colui che si
è fatto Dono per noi facendosi uomo, annunciando il Regno di Dio, morendo in croce e
risuscitando e inviando a noi il Paraclito. Solo perché viviamo l’anno liturgico come un
tempo “altro”, diverso, possiamo ritornare nel nostro tempo, nelle nostre ore, così
impegnate e qualche volta preoccupate, con un sapore nuovo, da testimoni: «Quello che
era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri
occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita - la
vita infatti si manifestò, noi l'abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi
annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, quello che
abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in
comunione con noi» (1 Gv 1,1-3).
Da qui la necessità di curare il nostro celebrare, i suoi linguaggi, le sue soglie in modo che
appaia la qualità “originale” del tempo liturgico, non perché estraniante o distraente, ma
perché capace di generare percorsi di vita nuova per l’uomo e la donna che vivono nel
tempo.
In modo particolare alcuni aspetti sembrano di particolare rilievo e urgenza.
• «Oggi si compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4, 20)
LA PAROLA E IL TEMPO
La cura per la Parola di Dio non deve venir meno. Il Lezionario è più che un libro che
raccoglie i testi scritturistici da leggere: è la forma che la Parola acquista per il cammino
della Chiesa, è il modo attraverso il quale ogni domenica e ogni giorno la Parola di Dio
viene riconsegnata alla Chiesa. Pertanto, cura della proclamazione, canto del salmo
responsoriale e dell’acclamazione al Vangelo, cura del luogo della proclamazione
(ambone), gestione sapiente dell’omelia per raccordare la Parola che risuona “oggi” con la
vita degli uomini, sono atteggiamenti indispensabili affinché la Parola non sia soltanto
“testo” (o uno dei tanti testi?), ma gesto di Dio che parla oggi (Sacrosanctum Concilium 7:
«è lui [Cristo] che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura»).
Spesso si ha la sensazione che la liturgia della Parola sia una cosa che si deve fare, al
massimo un’introduzione catechistica al resto della Messa, e non invece l’azione dove Dio
continua “oggi” a rivelarsi. Azioni e parole, invece, cooperano per far riconoscere
esattamente questo “oggi” di Dio e dell’uomo ed è esattamente quanto si afferma
nell’acclamazione che conclude la proclamazione della letture bibliche «Parola di
Dio/Rendiamo grazie a Dio». Dopo che la Parola è stata proclamata non è il momento di
discutere o di fare ragionamenti raffinati. Semplicemente si acclama perché si riconosce un
dono sempre nuovo.
• «Gesù... si alzò a leggere» (Lc 4,16)
A SERVIZIO DEL MISTERO
Non si può abbassare la guardia sulla situazione ministeriale delle nostre comunità.
Occorre lavorare perché ci siano uomini e donne che si dedicano a far sì che tutta
l’assemblea possa partecipare al mistero. A questo servono i ministeri, i tanti servizi nella
liturgia. È necessario che uomini e donne mettano a disposizione il proprio carisma e che
questo carisma prenda la forma della liturgia con la competenza che è richiesta. È la
liturgia, infatti, con le sue strutture e i suoi linguaggi, a dirci quale ministero serva in quella
celebrazione e che cosa sia giusto fare.
La lettura biblica, il canto, il servizio all’altare, quello della cura dei luoghi, la preparazione
delle celebrazioni non possono essere lasciati all’improvvisazione, ma domandano
coordinamento e competenza, capacità di supervisione e di azione, senza protagonismi e
lungi da ogni esibizionismo. Abbiamo imparato da questi lunghi mesi la preziosità del
ministero dell’accoglienza che non può, però, riguardare soltanto chi indica il posto o
ricorda le norme sanitarie, ma anche chi offre un saluto e un sussidio e così introduce alla
celebrazione.
Accanto ai ministeri tradizionali sarà sempre più necessario riconoscere nuovi ministeri al
servizio della celebrazione secondo quanto le esigenze del nostro tempo richiedono (si
pensi ad esempio all’accompagnamento delle fasi oranti dei riti esequiali: si potrà ancora
continuare a chiedere al sacerdote tutto?; oppure la guida delle celebrazioni domenicali in
assenza di presbitero; la guida dei alcuni momenti della preghiera comunitaria: è avvilente,
a questo proposito, che se si ammala il parroco si sospenda la liturgia domenicale del
Vespro). Non sarà e non dovrà essere una soluzione di ripiego rispetto alla mancanza di
ministri ordinati, ma espressione autentica della crescita della Chiesa che sa porsi
docilmente in ascolto dello Spirito.
• «Egli vi mostrerà al piano superiore una sala, grande e arredata; lì preparate»
(Lc 22,12)
UNO SPAZIO PER CELEBRARE
Abbiamo bisogno di spazi per celebrare, di spazi accoglienti, funzionali, ma anche belli. E
soprattutto spazi dove l’occhio e il corpo si orientino volentieri verso quelli che sono i poli
decisivi della celebrazione: altare e ambone innanzitutto. Questi elementi devono essere
nobili, riconoscibili come luoghi dove Cristo si dona come Parola e come cibo e bevanda.
Spesso attorno e sopra all’altare si ammucchiano oggetti, sedie, piante. A volte l’altare
antico cattura lo sguardo e umilia l’unico altare, dove si celebra. A volte cartelloni e scritte
mortificano il luogo della Parola.
Curare lo spazio sempre e soprattutto nei tempi “forti” (penso in particolare alla
valorizzazione della croce in Quaresima e del cero nel tempo pasquale) significa favorire
quella percezione “diversa” del mistero: diversa rispetto al quotidiano e tipica di ogni
stagione dell’anno liturgico. Pensiamo alla sobrietà e allo “svuotamento” che deve
interessare anche lo spazio in questo tempo di Quaresima o alla festosità del tempo
pasquale e alla valorizzazione del fonte battesimale nei cinquanta giorni da Pasqua a
Pentecoste.
Si adegua lo spazio perché lo spazio plasma le nostre azioni e la nostra percezione.
• «Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli ulivi» (Mt 26,30)
CANTARE IL MISTERO
Una delle prime domande che ci si pone prima di una Messa è: «che cosa cantiamo oggi?».
È una domanda importante che rivela un atto di responsabilità. Infatti, si tratta di far
cantare quell’“oggi” che la liturgia pone al centro. Si tratta, in altri termini, di fare in modo,
che anche il registro canoro e musicale interpreti quell’“oggi”, lo faccia rivivere come unico,
affinché l’anno liturgico non sia semplice carrellata di contenuti, ma esperienza che forma
e trasforma. Allora nella progettazione dei tempi particolari dell’anno liturgico, ad
esempio, bisognerà evitare canti passe-partout e ricorrere a quei canti, che nel ritornare
ogni anno di quel giorno e di quel tempo, verranno percepiti come “nuovi”. Questo vale sia
per le parti mobili (i canti di ingresso, offertorio e comunione), sia per le parti fisse: perché
non riservare uno o più Alleluia per l’Avvento e il Natale e “quel” Santo per la Quaresima?
Perché non abituarci a cantare tutte le domeniche il Gloria che è inno festivo? Non è detto
che si debba cantare sempre tutto, ma è opportuno in determinati momenti dell’anno
privilegiare un elemento o l’altro.
In Avvento, Quaresima e nei tempi di Pasqua e Natale il canto iniziale non potrà essere
generico, ma un canto che davvero inizi, ovvero introduca nel mistero che si celebra. E
questo non per una o due domeniche, ma per tutta la durata del tempo. È triste non sentire
più canti pasquali in certe chiese dopo l’Ottava di Pasqua. Ed è triste sentire canti
cosiddetti “vocazionali” nella IV domenica di Pasqua, giornata mondiale di preghiera per le
vocazioni. Ma è innanzitutto domenica di Pasqua!
Non dimentichiamo quel materiale, apparentemente povero, ma che è l’ossatura della
liturgia, come i dialoghi, le litanie, le invocazioni, le acclamazioni, materiale che se ben
impiegato, scalda la celebrazione rendendo l’assemblea veramente partecipe e soggetto
della liturgia insieme con Cristo.
La nuova edizione del Messale ci esorta a cantare di più e a cantare il “gratuito”, il “non
necessario”, come le parti della PE. Può essere un valido invito a fare in modo che il
cantare la liturgia non sia semplice decorazione, ma atto di fede sincero, apertura
“cordiale” al mistero.
Papa Francesco così diceva nell’Udienza generale del 3 febbraio di quest’anno a proposito
della liturgia:
È un incontro con Cristo. Cristo si rende presente nello Spirito Santo attraverso i segni
sacramentali: da qui deriva per noi cristiani la necessità di partecipare ai divini misteri. Un
cristianesimo senza liturgia, io oserei dire che forse è un cristianesimo senza Cristo. Senza il
Cristo totale. Perfino nel rito più spoglio, come quello che alcuni cristiani hanno celebrato e
celebrano nei luoghi di prigionia, o nel nascondimento di una casa durante i tempi di
persecuzione, Cristo si rende realmente presente e si dona ai suoi fedeli.
Un cristianesimo senza liturgia è un cristianesimo senza Cristo perché non fa spazio
all’Oltre, all’ulteriore, al mistero di Dio. Un cristianesimo senza liturgia sarebbe un
argomentare continuo su se stessi.
Celebrare, allora, significa creare le premesse perché la nostra vita personale e comunitaria
si sporga sul dono di Dio affinché non ci costringa una religione dei diritti o dei doveri, ma
ci avvolga e ci trasformi di giorno in giorno l’esperienza viva dei doni di Dio.