Sembra una favola l’avventura umana fin qui vissuta da don Davide Larice nell’assistenza prestata ai giovani con problemi di tossicodipendenza. C’era una volta, quindi, un giovane cappellano che, fin dai primordi del suo ministero, si occupa di ragazzi. Per la sua seconda esperienza di religioso è sbalzato dalla parrocchia di Feletto Umberto a quella defilata di Ampezzo. Quasi un confino. Dall’intensa attività svolta a getto continuo con centinaia di giovani a una parrocchia priva di ragazzi. Per avvicinarli e per togliersi di dosso il senso dell’inutile e dell’isolato, accetta l’incarico di segretario del patronato della scuola elementare. In quella veste gestisce anche il doposcuola, praticamente privo di alunni. Del centinaio di bambini che frequentano l’Istituto, solo cinque o sei si presentano a fare i compiti previsti per casa. Tutti gli altri abitano lontano o in casolari isolati.
A questo punto scatta l’innato senso dell’organizzazione di don Larice. Chiede e ottiene che le maestre non assegnino compiti a casa, che sia garantito un pasto caldo a mezzogiorno e che, nell’ambito del doposcuola, siano inserite materie che possano interessare i ragazzi, anche se non previste dai programmi ministeriali. Si parte subito con studio del territorio, topografia, toponomastica, storia del paese ricavata attraverso interviste agli anziani, educazione stradale. Per vincere la naturale ritrosia dei montanari, don Davide escogita il ‘Teatro ad personam’, con scene inventate e sperimentate in ambito famigliare le migliori delle quali rappresentate, poi, direttamente da ragazzi, genitori e nonni. Infine, riesce a sublimare la sua opera formativa inventando un giornalino, secondo gli schemi pedagogici di Freinet, basati sulla libera espressione dei bambini in voga al tempo. Testi e disegni liberi e redazione collettiva per correggere le bozze.
Riesce pure a far installare una piccola stamperia, gestita in proprio. L’effetto di tutto questo darsi da fare è dilagante. Come per magia i ragazzi si decuplicano. Letteralmente. Da 6, passano a 60. Nel frattempo, legge don Milani, Levi e Sardelli. Resta colpito soprattutto dagli scritti e dal lavoro sociale svolto a Roma da quest’ultimo personaggio. Don Roberto Sardelli si occupa delle 650 famiglie di baraccati romani che vivono in condizioni subumane. A scuola, i loro bambini sono collocati in classi differenziate. Don Roberto va a vivere con loro, si fa carico delle loro pene. Costituisce la ‘Scuola 725’ a tempo pieno per i loro figli, per toglierli dalla ghettizzazione. Scrive il ‘Non tacere’, libro-denuncia sui mali di Roma, che fa scalpore negli ambienti sonnolenti della politica romana.
Il nostro don Larice, attratto dal lavoro condotto da questo prete di frontiera, con il quale peraltro deve sentirsi in perfetta sintonia, si reca a Roma per conoscerlo e riceverne indirizzi. Gli mancano i soldi per il viaggio? Nessun problema. Viaggia in autostop. E anche nella Città Eterna, si sposta sempre a piedi. Sono gli anni ‘70 e anche nelle Valli carniche striscia già la serpe della droga. Sono in crisi i modelli religiosi. La ricerca spiritualistica volge a oriente, non esclusi i viaggi compiuti per prenderne contatto diretto. Don Larice avverte su di se queste realtà giovanili. Se ne fa carico morale e, nel contempo, agisce sul piano pratico, a partire dai suoi aspetti più spiccioli. La porta della sua canonica resta perennemente aperta, proprio in senso fisico.
Spesso, rientrando a casa, il sacerdote trova i giovani sbandati ad attenderlo. Li accoglie, li ascolta, li segue. Li va a visitare in galera quando, non infrequentemente, sono arrestati. Legge le loro lettere, che arrivano anche da siti lontani e indirizzate al prete amico, unico faro nel loro buio esistenziale. Si rende pure conto che l’area d’azione ampezzana è limitata e sente fortemente di dover fare qualcosa di più importante. Dopo un anno di meditazione sul da farsi, chiede e ottiene dall'Arcivescovo Monsignor Alfredo Battisti di spostarsi a Udine. Gli viene assegnato l’incarico di insegnante al Malignani. Impegno che gli lascia tempo da dedicare ai suoi ragazzi. Scende a Udine e trovandosi, nell’immediato, privo di alloggio, dorme in auto. Riesce, poi, a trovare un locale di fortuna dai frati di via Ronchi. Un ripostiglio privo di acqua, di riscaldamento e mobili. Nel frattempo è avvicinato da tossicodipendenti e con loro condivide gli stenti di quella triste stanza. Dormono per terra, in sacco a pelo.
“Con il mio magro stipendio non riesco a dar da mangiare ai 12 ragazzi arrivati da me – racconta don Davide - non parliamo poi di riscaldamento, servizi e suppellettili. Arriva finalmente un piccolo colpo di fortuna: affitto di un ambiente di 80 metri quadri, sostenuto da piccole offerte, questuate. Ci spostiamo. Bombola a gas per scaldarci e al mangiare provvediamo anche con la cura di un piccolo orto, oltre al mio magro stipendio. Tutto resta azzerato nel 1976, per il terribile sisma che colpisce il Friuli. Dopo tre anni riprendo a cucire le fila della mia missione. Questa volta in forma organizzata, anche in virtù del contributo di 5 milioni di lire (1979), elargizioni su interessamento dell’assessore alla sanità della Regione, Giacomo Romano. Aiuto che, peraltro, mi pone problemi di strategie d’impiego dell’insperata risorsa. Mi trovo davanti a un trivio: provvedere al mangiare dei miei ragazzi, installare il riscaldamento o preoccuparmi in primis delle necessità psicologiche di recupero dei tossicodipendenti che ospito”.
“Decido per quest’ultima soluzione – continua don Larice - e assumo uno specialista psicologo, che avvia immediatamente la terapia d’urgenza. La psiche stravolta da guarire, prima delle necessità pratiche elementari e prima di parlare di anima”. Una forma di caritas pragmatica che, alla distanza, produce anche gli sperati frutti spirituali. Duraturi, in quanto guadagnati con il proprio intimo. Da questo momento il motore della solidarietà di don Larice parte, cammina e si alimenta ancora una volta di donazioni e atti di liberalità.
Nel 1989, altro colpo grosso, richiamato dalla riconosciuta opera meritoria che l’organizzazione di don Larice svolge sul territorio. Il Lyons Udine Lionello offre un superbo aiuto economico. E ancora una volta: in quale direzione ottimizzarlo? Fra le mille pressanti esigenze, la priorità assoluta è riconosciuta alla necessità di prestare cure odontoiatriche ai ragazzi eroinomani. Potrebbe apparire una stranezza. Ma solo per chi non conosce uno dei tanti terribili effetti aggiuntivi che derivano dell’assunzione di eroina. Droga che attacca ed erode ossa e denti. Senza denti, o con gli stessi malconci, non si può masticare, quindi nemmeno alimentarsi a dovere. Da rilevare, inoltre, che i dentisti privati, al tempo non mettevano volentieri le mani in bocca a un drogato o, ancora peggio, a un ammalato di Aids. Quindi, don Davide chiede al Lyons Udine Lionello la possibilità di supportare l’allestimento di un moderno gabinetto dentistico. Il sogno si realizza con l’impiego di 35 milioni di lire. Si trova pure il medico disponibile a gestirlo. Infine, per non creare il senso del ghetto, lo studio dentistico è aperto anche per l’assistenza ai poveri del territorio.