La libertà di guardare il soffitto |
di Mario Calabresi |
«Ho visto per 25 volte la luna piena illuminare il deserto e ogni volta ho sperato che fosse l’ultima. Vedevo passare gli aerei di linea, osservavo le loro scie, cercavo di immaginare le vite delle persone a bordo, e mi sforzavo di credere che un giorno sarei tornato anch’io a guardare il deserto da un oblò. Ma il mio sogno più grande, un desiderio ancor più forte di dormire su un materasso, era di aprire gli occhi e vedere un soffitto. “Quando vedrò un soffitto sulla mia testa – mi ripetevo - allora sarò salvo”». |
Padre Pier Luigi Maccalli Pier Luigi Maccalli, sacerdote italiano della Società delle Missioni Africane, è tornato a vedere il soffitto a ottobre dello scorso anno, dopo aver passato 25 mesi prigioniero di un gruppo di jihadisti che fanno parte della galassia di Al Qaeda nel Maghreb. La sua storia, il diario del suo rapimento e di due anni terribili incatenato tra le dune del deserto, sono diventati un libro che abbiamo presentato insieme e questo mi ha dato la possibilità di ascoltare la sua voce e i suoi racconti. Padre Maccalli ha sessant’anni, viene da Madignano, un paese in provincia di Cremona, ha la barba bianca, una faccia aperta e solare e un modo di parlare semplice e diretto. Il braccialetto rosario realizzato da padre Maccali con la stoffa di un turbante usato per proteggersi la testa dal sole Poi dalla tasca tira fuori una piccola bustina da cui estrae due pezzi di legno intagliati, ci ha lavorato con pazienza per settimane, tenendoli sempre separati. Ora li mette insieme, come faceva soltanto la notte quando tutti dormivano, e forma una croce in legno. L’ha costruita pensando alla croce incisa sul muro della cella da padre Massimiliano Kolbe ad Auschwitz. L’ha fatta per non sentirsi solo, per ricordarsi quanta sofferenza ed ingiustizia c’è nel mondo. «Per molto tempo mi sono sentito abbandonato, avvolto da un deserto fuori e dentro di me, non sentivo la voce di Dio. Poi l’ho trovato nel silenzio». La croce in legno costruita da padre Maccalli pensando a quella incisa sul muro della cella da padre Massimiliano Kolbe ad Auschwitz Il terzo oggetto che tiene in tasca è un anello spezzato della sua catena, era riuscito a romperlo con un lavoro infinito, lo usava come cacciavite per allentare un pochino i bulloni che gli stringevano le caviglie. Questo anello, insieme con il rosario di stoffa e la croce sono i tre simboli del suo calvario, della sua resistenza e della sua fede. L’anello spezzato della catena a cui era legato padre Maccalli Dopo un anno di prigionia padre Maccalli ottiene di poter ascoltare la radiolina di un rapitore che va e viene dal campo, la prima volta in cui l’accende è la fine del 2019, sente parlare di un virus che ha colpito la Cina, un mese e mezzo dopo sente che è arrivato in Italia, ma non capisce che cosa sia. «Immaginavo una forte influenza, forse un po’ più forte del solito, ma non potevo immaginare cosa stesse succedendo al mio paese, che è tra Crema e Codogno». Poi l’uomo della radiolina torna e porta le ultime notizie: quel virus sta facendo strage in Europa e negli Stati Uniti. «Erano su di giri, contenti, festeggiavano e ripetevano che era il flagello di Dio contro l’Occidente. Poi arrivarono le notizie che i contagi si erano estesi ai paesi arabi e nel nord Africa e i loro toni si smorzarono, gli entusiasmi si spensero». «Mi hanno rubato due anni di vita e di missione, che significavano due anni di alfabetizzazione, scuola, costruzione di pozzi. Ho fatto pace con tutto questo solo dopo l’abbraccio della mia famiglia e della mia diocesi, che hanno vegliato, mi hanno atteso, hanno pregato tutte le sere e non hanno mai perso la speranza. Quell’abbraccio mi ha allargato il cuore e mi ha commosso. Oggi guardo a questi due anni come ai più fecondi del mio ministero missionario. Ho pianto al ritorno, sono stati due anni pieni di lacrime, la pioggia che ha irrigato il mio deserto». |