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lunedì 22 giugno 2009




Se torna l’uomo forte

Un importante saggio dell’autorevole filosofo e sociologo tedesco Ralph Dahrendorf, pubblicato dalla rivista l’Internazionale.

Tutti i paesi dell’europa occidentale e del Nordamerica sono ricchi. Poche altre nazioni nel mondo hanno lo stesso reddito pro capite: il Giappone, Singapore, Israele, i paesi produttori di petrolio. Gli ambiziosi paesi emergenti avranno bisogno di un’altra generazione per raggiungere il livello dell’occidente, e di molto più tempo per distribuire la ricchezza nello stesso modo. Gli occidentali, però, sono diventati più insicuri: hanno scoperto che il loro benessere non è affatto scontato. Per la prima volta nella storia, i genitori statunitensi devono dire ai loro figli: “Probabilmente non starete bene come noi”. Questa preoccupazione, che a volte è così forte da diventare paura, dipende da molti fattori. Parlare di cicli congiunturali o ricordare che nella vita niente cresce all’infinito sarebbe un discorso troppo astratto. Meglio limitarsi a constatare che i paesi occidentali hanno avuto una fiducia eccessiva nelle loro forze. Il reddito è aumentato senza sosta, ma allo stesso tempo sono cresciute le pretese nei confronti dei servizi dello stato, cioè quello che chiamiamo welfare state. Così le nuove generazioni devono pagare i costi del benessere delle generazioni precedenti. La conseguenza è un aumento preoccupante dell’indebitamento pubblico. A questo punto la ribellione dei più giovani è solo una questione di tempo. Inoltre ci sono intere zone del pianeta abitate da nuovi ricchi che vogliono partecipare ai vantaggi del benessere. I paesi occidentali sono costretti a misurarsi con un mercato globalizzato molto competitivo e hanno capito che è più facile creare il benessere che mantenerlo.

I disoccupati della classe media

Già nel decennio scorso è comparso un fenomeno preoccupante, la joblessgrowth, cioè la crescita caratterizzata dall’aumento del pil ma dalla creazione di pochi posti di lavoro spesso malpagati. I lavori ben retribuiti sono sempre meno e molti rifiutano di adattarsi a un’occupazione precaria. A volte, inoltre, l’eccesso di regolamentazione rallenta la creazione di nuovi posti di lavoro. Il risultato è che oggi la perdita di benessere e la disoccupazione non minacciano solo chi è già svantaggiato ma soprattutto la classe media, limitando drasticamente le possibilità di ascesa sociale. I disoccupati della classe media rappresentano una potenziale minaccia per una società libera. Negli anni trenta furono determinanti per il successo dei movimenti autoritari e totalitari. I paesi occidentali sono di fronte a un dilemma. Per mantenere il benessere devono restare competitivi. Ma in un mercato mondiale globalizzato questo richiede tagli e cambiamenti strutturali. Quanto sia complicato e doloroso compierli, lo dimostrano le difficoltà incontrate in questi ultimi anni dai governi europei. Dove sono stati realizzati, per esempio in Gran Bretagna, sono stati pagati a caro prezzo: l’aumento del pil e dell’occupazione è stato garantito dalla riduzione delle imposte, dai tagli ai servizi sociali, dall’aumento del precariato, dalla deregolamentazione. Tutte misure che fanno aumentare il divario tra i redditi più alti e i salari più bassi. Povertà ed esclusione sono evidenti. I nuovi lavori sono più occupazioni occasionali che impieghi stabili. Anche le imprese nascono e muoiono a ritmi vertiginosi. L’economia cresce, ma le persone stanno peggio. La ricchezza non produce più benessere.

Si può parlare ancora di una società solidale e civilizzata?

A parte il malcontento della classe media, questa situazione può mettere a rischio la libertà. L’appello dei cittadini a fare qualcosa, diventa subito una richiesta di leader “forti”. Nella confusione generale, la domanda di legalità e di ordine diventa sempre più forte. Alcuni arrivano a dire che quando le persone non accettano i lavori offerti, bisognerebbe costringerle attraverso forme di servizio obbligatorio, il workfare, cioè l’accettazione di certi lavori come condizione per godere di una serie di diritti sociali. La dissoluzione del vecchio mercato del lavoro indebolisce innanzitutto le forme tradizionali di controllo sociale. Cosa verrà dopo? Uno stato più forte che punisce severamente chi getta per strada i mozziconi d isigaretta? Uno stato che controlla tutti i cittadini attraverso un’organizzazione capillare, condominio per condominio? Non si tratta di esempi inventati, ma della realtà di Singapore,dove i giornali devono dare conto di ogni minima critica e i parlamentari dell’opposizione possono essere arrestati per qualsiasi manifestazione di protesta contro il governo.

Privilegi ed esclusione

La società ricca, la società buona e la società libera – cioè la concorrenza, la solidarietà sociale e la democrazia liberale – non sono la stessa cosa. è un’illusione credere che il benessere possa garantire da solo la libertà e la solidarietà. La ricchezza di pochi o anche di molti non raggiunge automaticamente tutti gli altri: privilegi ed esclusione sociale restano. La libertà è una conquista continua. Può esserci benessere senza libertà e anche libertà nella povertà. Da queste premesse molti ricavano, esplicitamente o implicitamente, brutti presagi. Dobbiamo deciderci, dicono: si può essere ricchi e liberi, ma non essere anche buoni. Si può essere buoni e liberi,ma allora dobbiamo rinunciare al benessere. E possiamo essere ricchi e buoni,o quanto meno socialmente giusti, ma allora bisogna fissare dei limiti alla libertà. Insomma, si possono soddisfare due condizioni alla volta, ma tutte e tre no. E si fanno gli esempi degli Stati Uniti (il capitalismo anglosassone), della Germania (l’economia sociale di mercato), di Singapore (il capitalismo asiatico). Il capitalismo puro esiste solo nei manuali di economia delle università americane. Nella realtà ci sono tante forme di capitalismo. In Europa, per esempio, c’è il capitalismo familiare italiano, che ha dato prova di una grande capacità di adattamento e potrebbe perfino rappresentare un modello in grado di coniugare mobilità economica e solidarietà sociale, e c’è l’economia sociale di mercato della Germania, che di certo non sarà cancellata dalla globalizzazione. Non bisogna farsi intimidire dai modelli dei manuali. E’ proprio questa la straordinaria conseguenza della caduta del Muro di Berlino: non viviamo più in un mondo caratterizzato da sistemi antagonisti, ma in un mondo aperto in cui economia di mercato e democrazia sono compatibili con tutte le particolari tradizioni della cultura economica e politica locale. Proviamo allora a delineare cinque direttrici socioeconomiche da cui partire per ottenere la quadratura del cerchio, cioè una società ricca, buona e allo stesso tempo libera. E la prima è proprio la particolare cultura, anche economica, di ogni paese. Ci sono almeno due categorie di persone interessate allo sviluppo delle imprese. La prima è quella dei soci, che cercano di far crescere il valore delle partecipazioni. Il loro interesse è il cosiddetto shareholder value: vogliono che le imprese valgano molto in borsa, non solo per incassare ricchi dividendi, ma anche per poter vendere le quote con una sostanziosa plusvalenza. La seconda categoria è quella di chi non possiede delle partecipazioni in un’impresa ma è comunque interessato alla sua stabilità. Ne fanno parte i dipendenti, i comuni in cui operano le aziende, i fornitori, i clienti. Questi sono glistakeholder, che hanno un interesse indiretto ma al tempo stesso molto concreto: gli stipendi per i dipendenti, le imposte per il comune, il fatturato per i fornitori.
Le culture economiche si differenziano nettamente tra loro per il signiicato che attribuiscono a queste due categorie. Nelle economie degli stakeholder conta il volume d’affari, in quelle degli shareholder conta il profitto. La Germania è un’economia di stakeholder, come dimostrano la partecipazione dei lavoratori all’amministrazione delle aziende, i legami tra imprese e comuni, gli accordi di fornitura di lungo periodo, il valore attribuito alla fiducia dei clienti. La Gran Bretagna, invece, è un’economia di shareholder. Ma a Londra, oggi, i politici discutono se si debba dare più peso agli stakeholder. Ogni volta che il tema viene rilanciato dalla sinistra, però, la destra ripete puntualmente una critica: in questo modo si danneggia il benessere economico britannico. Quello che conta sono gli azionisti, gli shareholder, soprattutto perché molti cittadini hanno un interesse diretto al valore di borsa delle imprese attraverso i fondi pensione e le società di assicurazione. Per questo,quindi, in alcuni paesi l’economia privilegia i risultati a breve termine e in altri quelli a lungo termine. In certi paesi i profitti vengono distribuiti e in altri vengonore investiti. Un’economia degli stakeholder, però ,può risultare anche dispendiosa e rigida. Nonostante le molte resistenze, infatti, è inevitabile che in futuro anche le imprese tedesche si orientino di più verso il profitto. Bisogna chiedersi fino a che punto si può spingere questo processo senza rischiare di perdere i vantaggi indubitabili della cultura degli stakeholder. Il problema è che per essere competitivi sul mercato globale il costo del lavoro deve essere conveniente. Questa è la seconda questione. Tredici mensilità di stipendio, le ferie, i giorni di malattia, la settimana corta e i costi diretti della rete di previdenza sociale rendono la vita difficile alle imprese tedesche. Ma questi diritti sono allo stesso tempo l’asse portante del benessere nazionale: in Germania è impossibile modificarli senza scatenare ondate di protesta. Per questo è necessaria innanzitutto una concezione chiara di come dovrà essere lo stato sociale in futuro e di come costruirlo senza distruggere tutto quello che sta a cuore a molti cittadini. Si tratta di un nuovo equilibrio tra prestazioni garantite ai singoli e obblighi verso la collettività. Per essere più precisi, per il welfare di domani sono importanti tre pilastri: dovrà essere statale, cioè le prestazioni dovranno essere pagate con le entrate fiscali; i diritti dovranno essere finanziati dai datori di lavoro e dai dipendenti; i contributi dovranno essere individuali e volontari. Il primo e il secondo di questi pilastri si ridurranno, mentre il terzo crescerà.

Molti intellettuali si sono occupati della società buona

Studiosi come Walter Lippmann, Robert Bellah e AmitaiEtzioni si sono concentrati sul concetto di comunità. Questo è il terzo tema centrale per la quadratura del cerchio. Si è parlato di valore borsistico anglosassone e di economia familiare italiana. In Germania l’asse portante della forza economica e sociale è la Gemeinde, il comune, in particolare le città piccole e di medie dimensioni. Ogni indebolimento della Gemeinde penalizza sia il benessere sia la solidarietà sociale. Oggi la globalizzazione sta riducendo la forza delle piccole comunità, al punto che molti hanno lanciato lo slogan “pensare globalmente, agire localmente”. Sarebbe molto rischioso, infatti, se continuassero le tendenze accentratrici di questi ultimi anni e se la capacità finanziaria dei comuni fosse ulteriormente indebolita. Purtroppo le comunità locali non hanno molti mezzi per difendersi: in Germania i Länder possono rivolgersi al Bundesrat (il senato federale), mentre i consigli comunali possono al massimo puntare sui parlamentari dei singoli collegi elettorali. Il nesso tra economia e comune è particolarmente evidente nel sistema bancario tedesco. Senza le banche cooperative e quelle comunali, la struttura decentrata dell’economia tedesca crollerebbe. Inoltrei comuni tedeschi possono puntare sulle casse di risparmio per molti progetti che in altri paesi sono faticosamente realizzati attraverso finanziamenti misti pubblici e privati.

Il volontariato

I comuni sono anche il luogo dove è più forte la presenza di quelle attività che possiamo definire volontarie. E questo è il quarto tema. Il cosiddetto terzo settore, o settore del volontariato, dovrà diventare, accanto allo stato e alle imprese private, un elemento centrale di una società ricca e allo stesso tempo buona. Gli esempi più efficaci del “comunitarismo” di Amitai Etzioni si trovano in quelle società dove i singoli sostituiscono lo stato nelle attività che l’amministrazione pubblica non può più sostenere. Come l’assistenza agli anziani malati. Il finanziamento delle ong attraverso lotterie o concerti ha raggiunto ovunque proporzioni notevoli. Il fatto che le persone donino volontariamente tempo e denaro sta diventando un elemento fondamentale della società buona. Anche qui vale la pena di accennare alle differenze culturali. Nelle società stataliste del continente europeo, soprattutto in Germania e in Francia, il terzo settore ha più difficoltà di quante ne incontra nelle vecchie società borghesi del mondo anglosassone. Spesso le grandi fondazioni finanziano le iniziative pubbliche insieme allo stato invece di agire per conto loro. Ma in questo campo stanno cambiando molte cose. E il punto di partenza sono ancora una volta le comunità locali: una garanzia contro la lacerazione del tessuto sociale è la partecipazione dei cittadini alle associazioni, dai vigili del fuoco volontari agli enti sportivi e di beneficenza. A causa delle difficoltà finanziarie, in futuro i governi saranno disposti più di prima a cedere determinati compiti ai privati. Quindi saranno utili al volontariato degli incentivi basati sulle agevolazioni fiscali. E, soprattutto, bisognerà evitare ogni eccesso di regolamentazione: il volontariato funziona meglio quando è un caos creativo fatto di organizzazioni piccole e grandi, ognuna con una finalità propria, anche se in contrasto tra loro. Le iniziative spontanee e volontarie ci portano – e questo è il quinto punto – al tema degli esclusi dalla società, che sta diventando particolarmente urgente nelle economie moderne. Oggi, in un’economia in crescita, non è più necessario includere tutti, né come lavoratori né come consumatori. Prima la diseguaglianza era un grande tema della riforma sociale, perché si partiva dal presupposto che tutti fossero necessari. Oggi la diseguaglianza è diventata relativamente sopportabile perché colpisce chi è meno integrato nel tessuto sociale. Chi fa parte del mercato del lavoro, della comunità politica, della società può spesso migliorare le sue condizioni con le proprie forze. Ci sono però molte persone che non ne fanno parte: disoccupati di lunga data che hanno perso l’accesso al mercato del lavoro, stranieri che non godono dei diritti politici. Ci sono fin troppe persone che non osano neanche entrare nei ristoranti o nei supermercati e vivono in disparte, ai margini, spesso di stenti. L’esclusione sociale può essere sopportabile per l’economia, ma non per la società. Una società che esclude non crede davvero nei suoi valori, cioè i diritti civili fondamentali per tutti. Una società di questo tipo non può meravigliarsi se altri – tra cui i suoi stessi membri, soprattutto i giovani – violano deliberatamente i valori condivisi. Non sono gli esclusi quelli che infrangono per primil e regole del diritto e dell’ordine: è la loro stessa esistenza la causa scatenante di queste infrazioni. Le diseguaglianze sociali del passato creavano quelle contraddizioni che si possono definire lotte di classe. Oggi l’esclusione sociale produce quella sensazione diffusa e fondata di non essere più al sicuro né per la strada né in casa propria. Chi vuole vivere in una società civile e in cui si rispettano le leggi dovrebbe volere l’inclusione di tutte le persone che vivono nel paese.

Nuovo autoritarismo

Una società ricca è caratterizzata da un alto reddito pro capite unito a una distribuzione della ricchezza che garantisce a tutti delle opportunità e alla maggior parte dei cittadini un tenore di vita decente. Una società buona, invece, è più difficile da definire: è complicato applicare categorie morali alle società. Si può pensare a una società che vive dell’iniziativa spontanea delle persone, che non esclude e in cui prevale una solidarietà sufficiente a non lasciare cadere nessuno, in linea di principio, attraverso le maglie della rete. Ma oltre alla società ricca e a quella buona, la quadratura del cerchio che abbiamo proposto è composta da un terzo elemento: la società libera. E’ proprio questo oggi il terreno più rischioso. Alcune società sono disposte a sacrificare le libertà politiche per raggiungere obiettivi economici e sociali. In questo modo si diffonde la convinzione che il cambiamento sia possibile solo limitando la libertà. Il pericolo di un nuovo autoritarismo è evidente. Questo fenomeno ha delle cause precise. I cambiamenti necessari per essere economicamente competitivi sono doloros ie non si può certo pretendere che l’elettorato li accetti passivamente. Così cresce la tentazione di sospendere in qualche modo il processo democratico, governando attraverso decreti o grandi coalizioni. Questa tendenza è rafforzata dalla difficoltà di trovare risposte democratiche a problemi evidenti. Non si potrebbero costringere i disoccupati a lavorare invece di sprecare il denaro dei contribuenti con i sussidi? Quando alcuni reati diventano più frequenti, non bisognerebbe stabilire pene più severe, soprattutto se a commetterli sono i giovani? La reazione inorridita dei progressisti non basta: chi vuole una società buona, oltre che libera, deve farsi venire in mente qualche idea. Il Partito laburista britannico si è rafforzato anche grazie al suo slogan Tough on crime, toug hon the causes of crime, duri con il crimine, duri con le cause del crimine. Bisogna varare provvedimenti duri contro i reati, ma combattere in modo altrettanto deciso le loro cause. Stare in guardia contro il nuovo autoritarismo è importante, perché non si presenta apertamente come una dittatura. Può consistere nello svuotamento strisciante dei diritti e delle libertà civili, e non necessariamente per opera di partiti estremisti, ma anche dei partiti dell’arco costituzionale. E probabilmente con il consenso dei cittadini.

La città pulita

Faccio solo un esempio. In un’intervista su un giornale ho letto: “Non è una città aperta, ma è pulita e non ci sono tossicodipendenti. Fino a non molto tempo fa era una colonia povera e sfruttata, dovesi soffriva la fame e c’erano malattie e altri problemi. Ora le persone sono tornate ad abitare in appartamenti di tre stanze, hanno un lavoro e le strade sono pulite”. E la libertà? “Al 90 per cento delle persone interessa più una vita migliore dal punto di vista materiale che il diritto di voto”. Non cerco polemiche spicciole, quindi non dirò di quale città si tratta. Né dirò chi è il magnate occidentale de imass media che l’ha elogiata in questo modo. L’esempio serve solo a evidenziare le tentazioni esercitate da un mondo ricco e socialmente controllato, ma senza libertà di parola e di associazione, senza elezioni e senza la garanzia dei diritti fondamentali. Il compito di cui stiamo parlando, quindi, non è affatto facile. Risolvere la paralisi del cambiamento senza ricorrere alla coercizione, competere sul mercato globale senza distruggere la solidarietà sociale: sono obiettivi a cui aspira in modo particolare chi ama la libertà. Forse non li raggiungeremo pienamente, ma dobbiamo fare del nostro meglio se vogliamo vivere in società ricche, buone e libere.

Ralph Dahrendorf
L’Internazionale 02/03/2009

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