Da molti mesi, ormai, la parola d’ordine per l’Afghanistan è “cambio di strategia”. Dopo otto anni di presenza nel Paese di contingenti militari, dopo innumerevoli conferenze internazionali, dopo programmi di sviluppo annunciati e scarsamente realizzati, l’Afghanistan è ancora lontano dalla stabilizzazione, dal consolidamento politico-istituzionale e dal progresso socio-economico. Le ultime elezioni presidenziali, che probabilmente, nonostante le non peregrine polemiche sui brogli, confermeranno l’uscente Karzai alla guida del Paese, sono un timido segnale di normalità. Ma i cosiddetti “signori della droga” dominano incontrastati in ampie aree dell’Afghanistan, e le istituzioni afghane restano in buona misura “rintanate” a Kabul.
L’Afghanistan rimane un Paese composto in gran parte da una struttura tribale, e ciò in principio non ha nulla di negativo. Senonché le antiche affiliazioni comunitarie sono state scompaginate dall’incidenza del fenomeno dei talebani e dal miraggio di facili guadagni derivanti dalla coltivazione dell’oppio e dal traffico di stupefacenti. L’esodo dai villaggi riguarda soprattutto i giovani nelle regioni pashtun nella parte meridionale e orientale dell’Afghanistan, intorno ai porosi confini con il Pakistan.
Creare una valida alternativa di vita per queste generazioni, ad esempio attraverso programmi agricoli moderni e la disponibilità di micro-crediti, è un obiettivo strategico ma difficile da perseguire in un Paese che rimane tra i più poveri del mondo. Nella comunità internazionale cominciano a serpeggiare dubbi anche sul fatto che l’intervento militare internazionale in Afghanistan sia una “guerra per necessità” e non, come quella scatenata dall’amministrazione Bush in Iraq, una “guerra per scelta”. In ogni caso, lo strumento militare mostra i suoi limiti.
I bombardamenti contro i talebani, compiuti con le cosiddette “bombe intelligenti”, hanno colpito in molte, troppe occasioni vittime civili. Difficile se non impossibile è conquistare “le menti e i cuori” degli afghani, come si proporrebbero di fare i comandi militari e le missioni civili che operano nel Paese, se invece queste menti e questi cuori vengono troppo spesso letteralmente colpiti a morte. Più che un cambio di strategia, per l’Afghanistan c’è bisogno di un cambio di missione, capovolgendo il rapporto tra i vasti mezzi impiegati per scopi militari e quelli invece dedicati a scopi civili, insufficienti e male organizzati.
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