Abbiamo sempre un po’ a disagio davanti al brano evangelico del fariseo e del pubblicano. Dispiace un po’ che ci siano solo due protagonisti. Noi, infatti, non ci sentiamo di identificarci con il fariseo, così antipatico nel suo atteggiamento di persona perbene che guarda tutti dall’alto in basso - anche Dio, se fosse possibile. Non ci sentiamo, però, di identificarci neppure con il pubblicano, perché è difficile riconoscersi così odiosamente peccatori, anche se alla fine vorremmo essere come lui ‘giustificati’.
A dire il vero c’è un terzo personaggio, invisibile nel racconto, ma presente: siamo noi. Sono io che ora leggo la parabola. Nel mio cuore non c’è solo il fariseo, né solo il pubblicano, ma volta per volta l’uno o l’altro, oppure entrambi insieme. C’è il desiderio di essere una persona gradita a Dio, una persona che di tanto in tanto si crede di essere superiore agli altri; vi sono poi momenti in cui, per grazia, mi è dato di avvertire quanto sono lontano dai sentimenti di Cristo e allora non oso neppure alzare gli occhi al Cielo. La vita cristiana è dunque - come dice san Paolo - una lotta, un combattimento, una corsa per ottenere, con un’implorazione incessante, di divenire miti e umili, di arrivare ad avere in noi «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù», il quale non è venuto a schiacciarci con la sua superiorità, ma a farsi povero, piccolo, addirittura peccato e maledetto, perché noi tutti possiamo essere giustificati.
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