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La sua biografia sembra un compendio della storia del XX secolo: nato in Sudafrica da una coppia di ebrei tedeschi fuggiti dal nazismo, negli anni Settanta viene mandato dai genitori in Israele per allontanarlo dalle tensioni legate all’apartheid; qui studia all’università ebraica ma impara anche l’arabo e, dopo l’incontro con il cristianesimo grazie a una suora ortodossa russa, inizia un lungo percorso che lo porterà a battezzarsi e, già trentenne, a entrare nella Compagnia di Gesù. Oggi, padre David Neuhaus, è il vicario di una comunità di frontiera, quella dei cattolici che vivono «nel cuore della società israeliana ebraica».
- Come è la sua comunità?
«I cattolici di espressione ebraica sono per la maggior parte ebrei israeliani, anche se ci sono anche immigrati russofoni, arrivati in Israele grazie alla "legge del ritorno", che solo con il tempo diventeranno ebreofoni e si integreranno nella società israeliana. È difficile fornire un dato preciso su quanti siano questi cattolici: molti non sanno nemmeno della nostra esistenza. In occasione delle grandi feste siamo circa 400, anche se per la vita quotidiana e per la Messa domenicale siamo intorno alle 200-250 persone. Ma credo che il numero dei cattolici che parlano ebraico e vivono nella società ebraica sia maggiore».
- E la vita degli ebrei cattolici?
«È una vita un po’ speciale, perché viviamo in una società definita dalla tradizione ebraica e i nostri fedeli, pur in maggioranza israeliani, non sono tutti di nascita ebraica: alcuni hanno sposato ebrei, altri sono arrivati qui per vari motivi e sono diventati israeliani, altri non hanno nemmeno la cittadinanza. Ma il fatto di vivere in Israele influenza la nostra comunità, a cominciare dalla lingua: la nostra vita cristiana è totalmente in ebraico, tutte le preghiere sono in ebraico e l’unica lingua che abbiamo in comune, pur venendo da tradizioni molto diverse, è proprio l’ebraico».
- La comune radice ebraica si riflette sulla vita della comunità?
«Per noi, è molto importante rispettare la tradizione ebraica, specialmente nella misura del tempo, nel calendario, nelle feste. Qui il giorno di riposo è il sabato e per molti fedeli è più facile venire a pregare il sabato, piuttosto che la domenica. Quindi, celebriamo la Messa il sabato sera. Allo stesso modo, le feste israeliane sono importanti per i nostri fedeli e per i nostri bambini, che vanno alle scuole laiche israeliane».
Il Papa nella cripta della Natività
(foto Osservatore Romano/AP ).
- La Chiesa cattolica in Terra Santa è una Chiesa in larghissima parte araba. Come sono i rapporti degli ebrei cattolici con il resto della comunità cristiana?
«In città come Tel Aviv-Jaffa e Haifa i rapporti sono abbastanza normali e naturali. Ad esempio, a Be’er Sheva l’unica parrocchia cattolica è quella di lingua ebraica e gli arabi, che vengono prevalentemente dalla Galilea per lavorare, in chiesa pregano in ebraico. Per loro, il parroco ha aperto un centro, gestito da una donna araba, che fa catechismo in arabo. I problemi sono a Gerusalemme, dove c’è un po’ più di tensione. Anche qui, però, i capi della Chiesa dettano il "tono" alla vita dell’intera comunità, un tono di unità e di testimonianza. È molto importante che la Chiesa e i cristiani, sia di provenienza araba sia ebraica, siano uniti e facciano "un solo corpo" in Cristo. Anche se sul piano politico, culturale, sociale non sempre c’è unità, è importante che nella fede questa unità ci sia. E tocca a noi dare questo messaggio».
- In che modo?
«Le racconterò un episodio recente. Abbiamo avuto un’ordinazione per il nostro vicariato, il che è abbastanza raro: un giovane di origine polacca, che vive qui da un certo tempo e parla ebraico, è diventato prete e servirà nella comunità ebreofona. Alla sua ordinazione un diacono arabo giordano ha letto il Vangelo in ebraico. Quindi, il giovane prete ha detto una parola di ringraziamento in arabo. Io stesso sono molto impegnato nella Chiesa araba, insegno al seminario del Patriarcato latino, che è nei Territori, e all’Università cattolica di Betlemme, dove tutti i miei studenti sono arabi, palestinesi o giordani».
- Come valuta il viaggio di Benedetto XVI?
«È stato lo stesso Papa a dare il tono della sua visita, dicendo "Io vengo per pregare per la pace e l’unità". Noi vogliamo camminare su questa strada. Abbiamo sempre in mente quanto è scritto nella lettera di Paolo agli Efesini: "Ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione" (2,14). Certo, è una sfida in una terra come questa. Ma la Chiesa può dare un tono diverso a quello che domina nella società».
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