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venerdì 5 giugno 2009

Celeste Gerusalemme - Terza e ultima parte

Il salesiano "memoria storica" d’Israele

Fonte(tratto dal mensile JESUS ed. San Paolo)

L’uomo che si appoggia a un bastone e cammina a piccoli passi nei lunghi corridoi del monastero di Bet Gemal è una reliquia vivente del cristianesimo in Terra Santa. Nato nel 1922 a San Benigno Canavese, il padre salesiano Domenico Dezzutto è arrivato in Medio Oriente nel 1937 e da allora non l’ha più lasciato. Ora vive in cima a questa collina, distante una trentina di chilometri da Gerusalemme, in un luogo silenzioso circondato da palme, cipressi e ulivi. «Sono arrivato in Terra Santa quando avevo solo 15 anni», racconta, «per compiere il noviziato al monastero di Cremisan. Mentre studiavo ci fu la Seconda guerra mondiale e insieme ad altri 115 salesiani fui internato dagli inglesi in un campo presso Betlemme, dove riuscii a continuare i miei studi di teologia. Così nel 1948 sono divenuto sacerdote».

Domenico Dezzutto diventa prete nello stesso anno in cui nasce lo Stato di Israele. Vari incarichi lo portano a viaggiare per tutto il Medio Oriente: Istanbul, Aleppo, il Cairo e Betlemme. Poi arriva a Bet Gemal, dove il monastero ha ospitato per molto tempo una scuola agricola. All’esterno dell’edificio si trova anche la più antica stazione meteorologica d’Israele, del quale padre Dezzutto è stato responsabile per diversi anni. Dal 1937 a oggi padre Domenico è stato testimone diretto della diaspora delle comunità cristiane del Medio Oriente. «Quando sono arrivato qui», ricorda, «eravamo undici novizi, ora invece siamo a corto di vocazioni. Anche i laici cristiani se ne vanno. Fino al 1948 molti di loro magari andavano all’estero a studiare, poi però tornavano nella regione. Ormai, invece, chi parte non torna più». Vanno via perché non vedono un futuro: «Se uno pensa all’avvenire dei figli non può che andarsene. Non c’è futuro per le famiglie. Come si fa a vivere e lavorare in un luogo come Betlemme, ormai trasformato in una prigione a cielo aperto?».

Il Papa alla Moschea della Roccia.
Il Papa alla Moschea della Roccia
(foto Osservatore Romano/AP ).

Padre Domenico rimpiange il tempo in cui la convivenza fra cristiani, ebrei e musulmani era più facile. «C’erano i problemi, ma si superavano per convenienza (tutti facevano affari con tutti) e con il rispetto reciproco. Ora invece è cresciuto l’estremismo di chi grida "è tutto mio!"». Dall’ampio giardino che circonda il monastero padre Domenico punta il bastone verso la valle di fronte, dove si sta espandendo la città di Bet Shemesh. In uno dei quartieri periferici si notano le nuove abitazioni, tutte uguali, di una comunità di ebrei ultraortodossi. «Una volta», aggiunge, «ci si capiva meglio. Gli ebrei arrivati qui dall’Europa orientale conoscevano bene i cristiani e il cristianesimo. Molti di loro dovevano la loro salvezza proprio all’aiuto delle famiglie cattoliche. Adesso è diverso. Gli ultraortodossi provengono tutti da New York, hanno uno spirito più patriottico, mirano ad affermare una identità». Nonostante le difficoltà, padre Domenico e i suoi confratelli continuano a praticare l’accoglienza, soprattutto verso gli ebrei, che vengono numerosi a visitare il monastero. «L’anno scorso abbiamo accolto fra gli 80 e i 100 mila visitatori». Padre Dezzutto, che cosa racconta a chi la viene a trovare? «Non mi stanco di gettare semi», risponde, «e ai giovani ricordo sempre di tenere il cuore aperto verso Dio e verso tutti gli uomini».

Roberto Zichittella

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