Gesù tocca un lebbroso
Il racconto della guarigione del lebbroso da parte di Gesù è narrato dall’evangelista secondo uno schema semplice: la presentazione del caso (v. 40), il gesto di Gesù che opera la guarigione (v. 41), la constatazione che l’implorato miracolo da parte del malato si è compiuto (v. 42). La catechesi del testo risulta assai semplice: la guarigione dal male è sempre legata alla fede della persona del malato. Egli deve prima prendere coscienza della propria situazione di impotenza e, di conseguenza, deve affidarsi alla potenza del Signore. Tutto e sempre è dono di Dio e la stessa salvezza, pur richiedendo la collaborazione umana, è opera di Dio, che agisce in forza della fede dell’uomo.
Il fatto poi che la guarigione sia quella di un lebbroso riveste un significato particolare: guarire dalla lebbra era uno dei grandi segni attesi per il tempo messianico. Era giunto il tempo della venuta del Messia in cui l’uomo veniva restituito completamente nella sua dignità umana, nella sua integrità di corpo e di spirito. Ma Gesù, con il suo munifico gesto con il quale tocca e guarisce il malato, vuole anche insegnare che il lebbroso non è un maledetto o un castigato da Dio, bensì una creatura amata dal suo Signore, perché la vera lebbra o impurità non è quella fisica, ma quella del cuore. Gesù non fa differenze di persone. Egli chiama tutti indistintamente al suo amore misericordioso perché ogni uomo è figlio di Dio e degno di salvezza e di amore.
RIFLESSIONE
Cristo, nella guarigione del lebbroso, ci si presenta come colui che “rompe” e abbatte autoritativamente tutte le barriere che ostacolano una incarnazione d’amore più completa e totale. È da meditare il termine greco utilizzato dall’evangelista. Esso esprime una tenerezza, una compassione, una sensibilità “materna” e “al femminile”: quella che sente la madre per il suo figlio. Le vibrazioni del cuore di Cristo rispetto ai dolori e alle tribolazioni che affliggono l’uomo sono talmente “sentite” che imitano piuttosto quelle della Donna, che si fa vittima-schiava-serva del Figlio che soffre. Nessuna Madre ha sofferto e si è lasciata coinvolgere dal soffrire umano più profondamente di Gesù.
Viene da pensare al celebre capitolo 53 di Isaia, dove il profeta descrive - in una delle sue pagine più suggestive - l’«uomo dei dolori esperto nel soffrire», che veramente «ha preso su di sé le nostre sciagure» e le nostre angosce. Il dolore, così, “toccato” da Cristo, diventa - per così dire - un fatto “sacramentale” e un evento di grazia: utile e santificante non solo per chi soffre, ma anche per tutto il corpo della comunità ecclesiale. Diventa evento di salvezza e di risurrezione “personale-collettivo”: il ‘tocco’ di Cristo lo ha caricato di energia divina.
PREGHIERA
Cristo, tu hai santificato il dolore umano
con la tua vita e con la tua parola.
Tu hai detto: «Se il chicco di frumento, affidato alla terra, non muore, rimane solo...». Hai detto: «Voi piangerete e avrete da tribolare; il mondo, invece, si divertirà». Hai detto ancora: «Se uno vuole venire dietro a me,
la smetta di pensare solo a se stesso,
prenda quotidianamente la sua croce
in santa pace e mi segua».
Per mezzo dei tuoi apostoli ci hai ripetuto: per essere meno indegni di entrare nel regno della vita, bisogna passare attraverso molte tribolazioni. Gesù, i tuoi seguaci hanno confermato questa via come quella “règia” per entrare nell’eternità, dove ritroveremo le tribolazioni della vita presente trasformate in gloria e tu ci hai assicurato: «Fatevi coraggio, questa gloria eterna
nessuno ve la potrà rapire!».
Ci crediamo, Gesù!
Ma tu aiutaci a tirar avanti
nelle molte tribolazioni e stanchezze quotidiane.
Aiutaci almeno a saper sopportare la pesantezza, il “martirio bianco” della quotidianità. Aiutaci a saper sopportare la vita con le sue sconfitte e delusioni, con le sue angosce e i problemi. Crediamo, Signore, ma aumenta in noi la fede, affinché, credendo di più, speriamo anche di più: e sperando di più, amiamo anche di più! Così è e così sia!
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