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domenica 17 febbraio 2008

Domenica 17 febbraio: commento alla Parola


Voi siete suoi disccepoli,

gente del mio popolo.

Con Cristo partite per amare.

Come avverrà ciò

senza passare attraverso

il dono di voi stessi?

Sarete suoi discepoli,

gente del mio popolo,

se con tutte le vostre capacità,

con la bontà e la profusione di cui siete ripieni,

voi impegnate la condivisione e intrattenete la solidarietà.

Se proponete la vostra presenza ai dimenticati dall’amicizia e date l’appoggio del vostro conforto agli abitanti della desolazione.

Se attingete da voi stessi e, senza porre domande e senza riferirvi a un comandamento, lo offrite, ma unicamente perché ciò vi pare umano

e coerente con il vangelo nel quale voi siete stati battezzati!

Se riconoscete che tutto ciò che avete ricevuto e anche tutto ciò che voi siete,

vi è stato dato per essere distribuito in vista della trasfigurazione del mondo!

Amare, non è dare?

TUTTE LE NAZIONI DELLA TERRA

«Il Signore disse ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò»

Perché Abramo ha lasciato la regione di Ur (nell’attuale Iraq)? Probabilmente perché, verso il 1850, la situazione dei semi-nomadi accampati presso le città e i loro rapporti con l’amministrazione urbana erano diventati difficili. In ogni caso, il clan di Abramo partì per intraprendere un lungo cammino con numerose tappe per arrivare a Canaan, la terra promessa. La partenza dalla città di Ur comportava la rottura con gli déi della città e l’apertura verso un altro Dio. Il ricordo di queste peregrinazioni faceva parte della memoria collettiva del clan.

Quando molto più tardi (tra il X e l’VIII secolo prima di Cristo) il racconto della partenza di Abramo venne scritto, i discendenti di Abramo non erano più nomadi, ma sedentari ormai insediati nella terra di Canaan. Questo racconto presenta due punti importanti: la partenza di Abramo è considerata come una risposta alla chiamata di Dio e la sua partenza non lo conduce soltanto verso una terra, ma verso l’intera umanità: «in te saranno benedette tutte le nazioni della terra».

Oggi rileggiamo la partenza di Abramo. Forse potrebbe aiutarci a mettere in opera le partenze, i cambiamenti di vita, le indispensabili rotture che esige la situazione attuale della nostra umanità e del nostro pianeta. Così potremmo, come Abramo, a partire dalle nostre «partenze» raggiungere l’intera umanità. E abbiamo il diritto di vedere nei nostri cambiamenti di comportamento una risposta a Dio, che ci chiama in modo inedito in questo inizio del terzo millennio.

TRASFIGURAZIONE

Per un istante, il giorno della trasfigurazione, [Pietro, Giacomo e Giovanni] contemplano la meraviglia di una carne divinizzata, di un volto da cui traluce lo splendore della vita eterna: il volto di Cristo risplende di tutta la luce di Dio. Ne consegue che il corpo umano può essere trasfigurato e che anche esso ha un messaggio di luce da comunicare [...]. Il nostro corpo ha una vocazione spirituale, una vocazione divina. Il nostro corpo è il primo vangelo, perché la testimonianza della presenza divina in noi deve passare attraverso l’espressione del nostro volto, attraverso la nostra apertura, la nostra benevolenza, il nostro sorriso. In noi c’è quel sole interiore che è la gloria di Gesù Cristo. Ciò che è esaltante nell’uomo è questo: egli può, anzi, è chiamato a rivelare Dio. In noi c’è una bellezza segreta, meravigliosa, inesauribile. Cristo non è venuto soltanto a salvare le nostre anime. Cristo è venuto a rivelare all’uomo Dio, a rivelare all’uomo l’uomo, è venuto a realizzare l’uomo in tutta la sua grandezza, la sua dignità, la sua bellezza. Siamo chiamati alla grandezza, alla gioia, alla giovinezza, alla dignità, alla bellezza, alla irradiazione di Dio, alla trasfigurazione di tutto il nostro essere comunicando con la luce divina.

Portiamo in noi il tesoro della vita eterna, la realtà di quella presenza infinita che è il Dio vivente. Oggi e in tutti gli istanti della nostra vita siamo chiamati a esprimere Dio. Dimentichiamo tutta la nostra negatività, tutta la nostra pesantezza, tutta la nostra fatica, la nostra stanchezza, i nostri limiti e i limiti degli altri! Che importa tutto ciò dal momento che Dio è in noi, che Dio è vivente, che ci ha fatto dono del suo canto, della sua grazia e della sua bellezza, dal momento che oggi dobbiamo entrare nella nube della trasfigurazione per uscirne rivestiti di Dio, portando sul nostro volto la gioia del suo amore e il sorriso della sua eterna bontà?

(M. ZUNDEL, Ta parole comme une source, Sillery 1998)

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