L’amore di Paolo VI per la Chiesa
Il 26 settembre 1897 nasceva Giovanni Battista Montini
Il 5 agosto 1963, durante un ritiro spirituale a poche settimane dalla sua elezione a Pontefice, Paolo VI traccia in un appunto un programma per sé: «L’amore totale, profondo, incomparabile, che deve intercedere fra l’apostolo e Cristo, si trasferisce sul gregge di Cristo. Si amas, pasce. Qual è il gregge di Cristo? [...] La Chiesa. Meditazione continua, che non deve finire più, e deve svolgersi in amore». E davvero Papa Montini «non finirà più» di meditare, lungo i quindici anni successivi, sull’amore alla Chiesa. Suor Amalia Rocchi, una delle religiose che prestano servizio nel suo appartamento pontificio, testimonia: «Quando noi lo ringraziavamo ci diceva sempre: “Pregate per la Santa Chiesa, la nostra Chiesa!”. Quando Papa Paolo non è con Dio è con la Sua Chiesa!». Il cardinale Confalonieri, che conosce Paolo VI da decenni, durante l’omelia per il suo funerale proromperà: «Oh, il suo grande amore alla Chiesa!».
Paolo VI sviluppa questo motivo dominante in tre direzioni, che derivano tutte dal mandato di Cristo a Pietro. La prima è personale di Montini: il suo amore appassionato — che da arcivescovo di Milano definiva «fervore divorante e dilatante» — per la Chiesa. La seconda è l’amore della Chiesa per l’uomo e tutti gli uomini: perché la Chiesa, come dice il Papa nel 1970 a Hong Kong, rivolto alla Cina, è «un segno operante, un sacramento di unità e di amore. Amare è la sua missione». La terza direzione è l’obiettivo che il Papa pone ai moderni, di amare a loro volta la Chiesa, che continuamente li cerca e li interpella nel dialogo di salvezza.
La dedizione alla Chiesa è già stata trasmessa al giovane Montini dalla famiglia e da quella Brescia cattolica cui egli si compiace di appartenere; ha avuto modo di svilupparsi durante gli studi e la preparazione al sacerdozio ed è diventata testimonianza soprattutto negli anni in cui è assistente dei giovani universitari; è stata vissuta come «amore al proprio ufficio nella Chiesa», nel trentennale servizio in Segreteria di Stato; e in dimensione pastorale durante l’episcopato ambrosiano. L’arcivescovo Montini ha spiegato ai suoi sacerdoti che egli fa «ragione di vita e abitudine mentale» di questo amore alla Chiesa. In seguito, più volte Paolo VI ripete questo concetto; nel 1976 lo esprime con questa intensa esclamazione: «La Chiesa! È essa il nostro amore costante, la nostra sollecitudine primordiale, il nostro “pensiero fisso”!»; e nel celebre discorso nel quindicennio dell’elezione, il 23 giugno 1978, ribadisce: «Anche oggi la Chiesa di Cristo ci sta di fronte o, meglio, ci sta nel cuore».
La seconda direzione nel pensiero di Paolo VI è l’amore della Chiesa per l’uomo, che descrive con parole stupende già quando è arcivescovo di Milano: «La Chiesa è [...] Madre, perché ci ama come appunto ama una madre, più d’ogni altro. [...] Ci ama, curvandosi sopra ogni nostra condizione umana: fanciulli ci accoglie, giovani ci esalta, adulti ci benedice, vecchi ci assiste, morenti ci conforta, defunti ci ricorda, poveri ci preferisce, malati ci cura, peccatori ci richiama, pentiti ci perdona, disperati ci ricrea». Qualche anno dopo, Paolo VI, nel famoso discorso di apertura del quarto periodo del concilio, si chiede come verrà ricordato questo momento storico cruciale dallo studioso del futuro: «Che cosa faceva, egli domanderà, in quel momento la Chiesa cattolica? Amava! sarà la risposta».
E la sensibilità pastorale di Papa Montini si conforma a questo sublime dovere d’amore: nella paziente tenacia nel condurre a termine il concilio e soprattutto il post-concilio; nei viaggi apostolici; nella spiccata coscienza ecumenica; nell’infaticabile e grandioso magistero per la pace; nella ferma difesa dei valori; nella carità e sensibilità verso gli ultimi... «Essere nella Chiesa non è un merito ma un debito verso Cristo», scriveva già il giovane Montini, un debito d’amore.
Fin dagli anni ’20 e ’30, poi, questa devozione personale si declina nella terza direzione, che è quella pastoralmente più rilevante: l’invito continuo e fervoroso ai fedeli a condividere l’amore alla Chiesa. Commentando la prima Lettera a Timoteo, don Montini scrive: «La Chiesa [...] s’impara ad amarla com’è, non solo nel pensiero divino [...] ma nella sua creta umana, [...] nelle sue imperfezioni terrene. E la Chiesa non si può amare davvero che con questa simpatia, con questa compassione, con questo interessamento, con questa tolleranza, con questa sollecitudine delle sue umili e umane necessità, perché essa è davvero carne, è davvero corpo. Ma carne di Cristo, corpo di Cristo, e le sue piaghe, le sue infermità, le sue imperfezioni sono quelle del paziente fratello divino». Va nella stessa linea la supplica accorata che, trent’anni più tardi, nella Pentecoste del 1962, l’arcivescovo Montini eleva nel duomo di Milano: «Amare la Chiesa! [...] Amarla di più [...]. Amarla con fermezza e con fedeltà, non solo quando essa difende i nostri interessi e comanda cose di nostro gusto, ma altresì quando l’amore è silenzio, è rinuncia, è pericolo, è servizio, è sacrificio». E il 10 giugno 1963, salutando i seminaristi prima della partenza per il conclave, il cardinale Montini raccomanda loro di leggere tutti gli avvenimenti presenti e futuri nella «chiave riassuntiva dell’amore alla Chiesa, dell’amore alla Chiesa, dell’amore alla Chiesa!».
Nel 1964 Ecclesiam suam, l’enciclica programmatica del pontificato, viene destinata proprio, come spiega Papa Montini, «ad accrescere in tutti la stima e l’amore per la Chiesa di Nostro Signore Gesù Cristo». L’amore ardente a Cristo porta al cuore dell’enciclica — perché è la Chiesa Sua, di Cristo — e Paolo VI avverte il senso di fortissima responsabilità, per mandato divino, di conformarne l’immagine terrena a quella voluta dal Fondatore. Nelle catechesi del mercoledì durante le ultime settimane del concilio, egli approfondisce il tema, nella direzione di un amore che si qualifica come fedeltà alla Chiesa «in quest’ora specialissima della sua storia e della sua vita; l’ora del Concilio»; in seguito il Papa aggiungerà che «con la fedeltà al Concilio deve crescere [...] in ciascuno di noi, lasciateci dire, l’amore alla Chiesa [...]. Noi vorremmo che la stessa fiducia manifestata verso la Chiesa che ieri ha convocato il Concilio, venisse da tutti rivolta, in forma altrettanto piena e leale, verso la stessa Chiesa che oggi interpreta il Concilio».
Ogni immagine della Chiesa «mistero» può essere conosciuta solo con l’amore, spiega Paolo VI; e richiama gli splendidi appellativi della Lumen gentium: «L’Israele di Dio, la città di Dio, la Gerusalemme celeste, la Sposa di Cristo, la madre dei fedeli, il campo di Dio, la vigna del Signore, l’ovile di Cristo, la casa di Dio, il Popolo di Dio, e finalmente il Corpo mistico di Cristo». Così il Papa presenta la Chiesa «come la luce d’un diamante dalle molte facce» e implora i fedeli: «Figliuoli carissimi, lasciatevi attrarre da queste luci».
Anche la «terribile e sconcertante realtà» dell’infermità della Chiesa terrena, che il Pontefice ricorda spesso, deve essere motivo di un amore «ancora maggiore, quello che noi abbiamo per le persone care, quando sono malate». «Sì, Figli carissimi, bisogna rendersi conto che noi apparteniamo non ad una Chiesa trionfante, ma ad una Chiesa militante, contrastata e sofferente. Vorremo noi amarla meno la Chiesa per questo? [...] Non la ameremo noi forse di più la nostra Madre, la santa Chiesa, proprio perché sofferente?». Durante un ritiro spirituale a Castel Gandolfo, il 27 luglio 1974, appunta: «La Chiesa, da amare, da servire, da sopportare, da edificare, con tutto il talento, con tutta la dedizione, con inesauribile pazienza ed umiltà, ecco ciò che resta sempre da fare, cominciando, ricominciando, […] finché Egli ritorni, in omni fiducia, sicut semper».
Fedeltà, testimonianza e servizio. Negli anni più difficili della contestazione dentro il corpo ecclesiale, Paolo VI spiega ai fedeli che le inquietudini interne possono essere lette come premessa di un progressivo purificarsi e rinvigorirsi della Chiesa, e ancora esorta: «È venuta l’ora di amare la Chiesa con cuore forte e nuovo». Commentando il Vangelo della Trasfigurazione, applica questa straordinaria visione alla Chiesa che, al di là dei suoi difetti, «dobbiamo cercare di penetrare nella sua realtà, di vederla trasfigurata, di vedere la sua luce che è splendente come il sole e candida come la neve». E conclude: «Ed è per questo che io sono, come Santa Caterina, folle d’amore per la Chiesa».
I testimoni raccontano che, poco prima di spirare, il Papa raccomanda preghiere non per sé, ma per la Chiesa. E già aveva formulato questa estrema offerta nel Pensiero alla morte: «Prego pertanto il Signore che mi dia grazia di fare della mia prossima morte dono d’amore alla Chiesa. Potrei dire che sempre l’ho amata; [...] e che per essa, non per altro, mi pare d’aver vissuto».
di Giselda Adornato
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