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martedì 13 luglio 2010

Disinquinare i terreni con le piante

Fonte

Dalla facoltà di Agraria un'innovazione nelle tecniche di phytoremediation Usare le piante per bonificare i terreni inquinati da metalli pesanti. Il gruppo di ricerca coordinato fino allo scorso anno da Flavia Navari, professoressa presso l’allora Dipartimento di Chimica e Biotecnologie Agrarie della Facoltà di Agraria, da anni studia ed applica i sistemi di decontaminazione “verde” delle aree inquinate. Recentemente il gruppo ha perfezionato queste tecniche per renderle ancora più efficaci. I risultati sono stati presentati a metà giugno a Pisa in occasione del convegno internazionale “Environmental Pollution and Clean Bio/Phytoremediation” organizzato dalla sezione di Chimica Agraria del Dipartimento di Biologia delle Piante Agrarie e coordinato dal professor Riccardo Izzo. La sperimentazione nella Laguna di Grado e Marano in provincia di Udine. In provincia di Udine vi è un’area inquinata di circa 3-4 ettari compresa all’interno del sito denominato “Laguna di Grado e Marano e dei corsi d’acqua limitrofi” identificato come sito di interesse nazionale dal Programma Nazionale di ripristino ambientale dei siti contaminati. L’area inquinata è adibita a discarica per lo smaltimento di ceneri di pirite provenienti dai processi di arrostimento del minerale per l’estrazione dello zolfo e la produzione di acido solforico. A seguito di analisi chimiche il sito è risultato gravemente contaminato da cinque metalli pesanti: arsenico, cadmio, piombo, rame e zinco. “I primi tre – spiega Flavia Navari – sono tossici a tutte le concentrazioni, mentre lo zinco ed il rame, elementi indispensabili sia per la crescita delle piante che per gli esseri viventi, lo sono solo ad alte concentrazioni, come riscontrato in questo caso”. La laguna di Grado e Marano è oggetto di studio da parte del gruppo di ricerca della professoressa Navari dal 2005 insieme alle Università di Udine, Padova, Firenze e Milano statale. L'innovazione nelle tecniche di phytoremediation. Il lavoro è partito da uno screening del suolo per individuare i livelli di contaminazione per poi proseguire con la selezione delle piante più adatte a bonificare il terreno e la tecnologia più opportuna da impiegare. “Le piante – racconta Flavia Navari - funzionano come delle specie di ‘pompe’ ad energia solare che assorbono i metalli dal suolo. Nel caso del sito situato nella laguna di Grado e Marano la specie che è risultata più efficace è la Brassica carinata (foto). Infatti, anche se non appartiene alle piante ‘iperaccumulatrici’ propriamente dette, vale a dire a quel gruppo di piante capaci di assorbire altissime quantità di metalli, durante la sperimentazione essa non ha ridotto in maniera sensibile la biomassa e, soprattutto, è riuscita a tollerare le alte concentrazioni di più metalli senza soccombere". “Le piante – continua la professoressa Navari – riescono ad assorbire meglio ed in quantità maggiore i metalli se prima essi sono resi disponibili nel terreno e questo può avvenire in vari modi, ad esempio coltivando specie vegetali che liberano nel suolo attraverso le radici degli ‘essudati radicali’ che solubilizzano i metalli legati alle particelle del terreno oppure utilizzando dei composti chimici di sintesi particolarmente indicati allo scopo". Ed in questa seconda possibilità sta proprio l’innovazione tecnologica studiata dal gruppo della professoressa Navari. Fino a poco tempo fa al suolo veniva addizionato l’acido etilendiamminotetraacetico (EDTA) che però ha come controindicazione il fatto che si degrada lentamente nel suolo e può quindi, a sua volta, inquinare le falde acquifere a seguito di piogge abbondanti o irrigazioni. “Al posto dell’EDTA – spiega Mike Frank Quartacci, ricercatore del Dipartimento di Biologia delle Piante Agrarie e componente del gruppo di ricerca – abbiamo sperimentato con successo un composto simile, vale a dire l’acido etilendiamminodisuccinico (EDDS), che presenta il vantaggio di degradarsi totalmente in pochi giorni senza perciò causare problemi di ulteriore inquinamento. In questo modo è stata eliminata una delle possibili criticità della decontaminazione ‘verde’”. Punti di forza e criticità della Phytoremediation. Dal punto di vista ambientale i terreni decontaminati con questa biotecnologia restano fertili, al contrario di quanto avviene usando i metodi chimico-fisici “tradizionali” che, inoltre, sono assai più costosi. Ma la vera criticità dei metodi di bonifica verde in realtà sta altrove, nonostante i molti vantaggi che essa presenta. “Infatti il vero problema - conclude Riccardo Izzo – sono i tempi. Per bonificare un terreno utilizzando le piante occorrono molti anni in dipendenza del livello di inquinamento, senza contare che in Italia siamo ben lontani dall’avere una completa mappatura delle aree inquinate e quindi passibili di intervento”.

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