GAUDETE IN DOMINO
ESORTAZIONE APOSTOLICA
DI SUA SANTITÀ
PAOLO VI
Venerabili Fratelli e diletti Figli,
salute e Apostolica Benedizione
Rallegratevi nel Signore, perché egli è vicino a quanti lo invocano con cuore sincero (1).
Nel corso di questo Anno Santo già molte volte noi abbiamo esortato il Popolo di Dio a
corrispondere con gioiosa prontezza alla grazia del Giubileo. Il nostro invito chiama
essenzialmente, voi lo sapete, al rinnovamento interiore e alla riconciliazione nel Cristo. Ne
va la salvezza degli uomini, ne va la loro felicità completa. Nel momento in cui, in tutto il
mondo, i credenti si preparano a celebrare la venuta dello Spirito Santo, noi vi invitiamo ad
implorare da Lui il dono della gioia. Certo, per noi stessi il ministero della riconciliazione si
esercita tra numerose contraddizioni e difficoltà (2), ma esso è suscitato ed accompagnato
in noi dalla gioia dello Spirito Santo. Così, in tutta verità noi possiamo riprendere per conto
nostro, riguardo alla Chiesa universale, la confidenza dell'Apostolo Paolo alla sua comunità
di Corinto: «Voi siete nel nostro cuore, per morire insieme e insieme vivere. Sono molto
franco con voi . . . Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra
tribolazione»(3). Sì, è per noi ugualmente una esigenza di amore l'invitarvi a condividere
questa gioia sovrabbondante che è un dono dello Spirito Santo (4).
Noi abbiamo dunque sentito come la felice necessità interiore di indirizzarvi, nel corso di
questo Anno di grazia, e molto opportunamente in occasione della Pentecoste, una
Esortazione Apostolica il cui tema è, precisamente, la gioia cristiana, la gioia nello Spirito
Santo. È come una specie di inno alla gioia divina, che noi vorremmo intonare per
suscitare un'eco nel mondo intero e anzitutto nella Chiesa: che la gioia sia diffusa nei cuori
con l'amore di cui essa è il frutto, per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (5).
Auspichiamo anche che la vostra gioia si unisca alla nostra, per la consolazione spirituale
della Chiesa di Dio, e di tutti quegli uomini, che vorranno rendersi cordialmente attenti a
questa celebrazione.
I. IL BISOGNO DI GIOIA NEL CUORE DI TUTTI GLI UOMINI
Non si esalterebbe come si conviene la gioia cristiana rimanendo insensibili alla
testimonianza esteriore ed interiore, che Dio creatore rende a se stesso in seno alla sua
creazione: «E Dio vide che essa era cosa buona» (6). Facendo sorgere l'uomo entro un
universo che è opera di potenza, di sapienza, di amore, Dio, prima ancora di manifestarsi
personalmente mediante la rivelazione, dispone l'intelligenza e il cuore della sua creatura
all'incontro con la gioia, nello stesso tempo che con la verità. Bisogna dunque essere
attenti all'invocazione che sale dal cuore dell'uomo, dall'età dell'infanzia meravigliosa fino a
quella della serena vecchiezza, come un presentimento del mistero divino.
Affacciandosi al mondo, non prova l'uomo, col desiderio naturale di comprenderlo e di
prenderne possesso, quello di trovarvi il suo completamento e la sua felicità? Come
ognuno sa, vi sono diversi gradi in questa «felicità». La sua espressione più nobile è la
gioia, o la «felicità» in senso stretto, quando l'uomo, a livello delle facoltà superiori, trova
la sua soddisfazione nel possesso di un bene conosciuto e amato (7). Così l'uomo prova la
gioia quando si trova in armonia con la natura, e soprattutto nell'incontro, nella
partecipazione, nella comunione con gli altri. A maggior ragione egli conosce la gioia o la
felicità spirituale quando la sua anima entra nel possesso di Dio, conosciuto e amato come
il bene supremo e immutabile (8). Poeti, artisti, pensatori, ma anche uomini e donne
semplicemente disponibili a una certa luce interiore, hanno potuto e possono ancora, sia
nel tempo prima di Cristo, sia nel nostro tempo e fra di noi, sperimentare qualcosa della
gioia di Dio.
Ma come non vedere pure che la gioia è sempre imperfetta, fragile, minacciata? Per uno
strano paradosso, la coscienza stessa di ciò che costituirebbe, al di là di tutti i piaceri
transitori, la vera felicità, include anche la certezza che non esiste felicità perfetta.
L'esperienza della finitudine, che ogni generazione ricomincia per proprio conto, obbliga a
costatare e a scandagliare lo iato immenso che sempre sussiste tra la realtà e il desiderio
di infinito.
Questo paradosso, questa difficoltà di raggiungere la gioia ci sembrano particolarmente
acuti oggi. È il motivo del nostro messaggio. La società tecnologica ha potuto moltiplicare
le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia. Perché la gioia
viene d'altronde. È spirituale. Il denaro, le comodità, l'igiene, la sicurezza materiale spesso
non mancano; e tuttavia la noia, la malinconia, la tristezza rimangono sfortunatamente la
porzione di molti. Ciò giunge talvolta fino all'angoscia e alla disperazione, che l'apparente
spensieratezza, la frenesia di felicità presente e i paradisi artificiali non riescono a far
scomparire. Forse ci si sente impotenti a dominare il progresso industriale, a pianificare la
società in maniera umana? Forse l'avvenire appare troppo incerto, la vita umana troppo
minacciata? O non si tratta, soprattutto, di solitudine, di una sete d'amore e di presenza
non soddisfatta, di un vuoto mal definito? Per contro, in molte regioni, e talvolta in mezzo
a noi, la somma di sofferenze fisiche e morali si fa pesante: tanti affamati, tante vittime di
sterili combattimenti, tanti emarginati! Queste miserie non sono forse più profonde di
quelle del passato; ma esse assumono una dimensione planetaria; sono meglio
conosciute, illustrate dai «mass media», non meno delle esperienze di felicità; opprimono
la coscienza, senza che appaia molto spesso una soluzione umana alla loro dimensione.
Questa situazione non può tuttavia impedirci di parlare della gioia, di sperare la gioia. È nel
cuore delle loro angosce che i nostri contemporanei hanno bisogno di conoscere la gioia,
di sentire il suo canto. Noi abbiamo profonda compassione della pena di coloro sui quali la
miseria e le sofferenze di ogni genere gettano un velo di tristezza. Noi pensiamo in
particolare a quelli che si trovano senza risorse, senza soccorso, senza amicizia, che
vedono annientate le loro speranze umane. Essi sono più che mai presenti alla nostra
preghiera, al nostro affetto. Noi non vogliamo certo che nessuno si abbatta. Cerchiamo, al
contrario, i rimedi capaci di portare la luce. Ai nostri occhi, essi sono di tre ordini.
Gli uomini devono evidentemente unire i loro sforzi per procurare almeno il minimo di
sollievo, di benessere, di sicurezza, di giustizia, necessari alla felicità, a numerose
popolazioni che ne sono sprovviste. Una tale azione solidale è già opera di Dio; essa
corrisponde al comandamento di Cristo. Essa procura già la pace, ridona la speranza,
rinsalda la comunione, apre alla gioia, per colui che dona come per colui che riceve,
perché vi è più gioia nel dare che nel ricevere (9). Quante volte noi vi incitammo, Fratelli e
Figli carissimi a preparare con ardore una terra più abitabile e più fraterna, a realizzare
senza indugio la giustizia e la carità per uno sviluppo integrale di tutti! La Costituzione
conciliare Gaudium et Spes e numerosi Documenti pontifici hanno insistito su questo
punto. Anche se non è questo direttamente il tema che noi qui affrontiamo, non ci si
dimentichi di questo dovere primordiale dell'amore del prossimo, senza il quale sarebbe
sconveniente parlare di gioia.
Ci sarebbe anche bisogno di un paziente sforzo di educazione per imparare o imparare di
nuovo a gustare semplicemente le molteplici gioie umane che il Creatore mette già sul
nostro cammino: gioia esaltante dell'esistenza e della vita; gioia dell'amore casto e
santificato; gioia pacificante della natura e del silenzio; gioia talvolta austera del lavoro
accurato; gioia e soddisfazione del dovere compiuto; gioia trasparente della purezza, del
servizio, della partecipazione; gioia esigente del sacrificio. Il cristiano potrà purificarle,
completarle, sublimarle: non può disdegnarle. La gioia cristiana suppone un uomo capace
di gioie naturali. Molto spesso partendo da queste, il Cristo ha annunciato il Regno di Dio.
Ma il tema della presente Esortazione va ancora oltre. Perché il problema ci appare
soprattutto di ordine spirituale. È l'uomo, nella sua anima, che si trova sprovvisto
nell'assumere le sofferenze e le miserie del nostro tempo. Esse lo opprimono quanto più gli
sfugge il senso della vita; non è più sicuro di se stesso, della sua vocazione e del suo
destino, che sono trascendenti. Egli ha desacralizzato l'universo ed ora l'umanità; ha talora
tagliato il legame vitale che lo univa a Dio. Il valore degli esseri, la speranza non sono più
sufficientemente assicurati. Dio gli sembra astratto, inutile: senza che lo sappia esprimere,
il silenzio di Dio gli pesa. Sì, il freddo e le tenebre sono anzitutto nel, cuore dell'uomo che
conosce la tristezza. Si può accennare qui alla tristezza dei non credenti, allorché lo spirito
umano, creato a immagine e a somiglianza di Dio, e perciò a Lui orientato come al proprio
bene supremo, unico, resta senza conoscerlo chiaramente, senza amarlo, e di
conseguenza senza provare la gioia, che arrecano la conoscenza benché imperfetta di Dio
e la certezza di avere con Lui un vincolo che nemmeno la morte potrebbe infrangere.
Chi non ricorda la parola di Sant'Agostino: «Tu ci hai creati per Te, Signore, e il nostro
cuore è inquieto finché non riposa in Te» (10)? Perciò, è col diventare maggiormente
presente a Dio e con lo staccarsi dal peccato che l'uomo può veramente entrare nella gioia
spirituale. Senza dubbio, «la carne e il sangue» ne sono incapaci (11). Ma la rivelazione
può aprire questa prospettiva e la grazia operare questo rovesciamento. Il nostro proposito
è precisamente quello di invitarvi alle sorgenti della gioia cristiana. Come lo potremmo,
senza metterci tutti di fronte al piano di Dio, in ascolto della Buona Novella del suo amore?
II. ANNUNCIO DELLA GIOIA CRISTIANA NELL'ANTICO TESTAMENTO
Per essenza, la gioia cristiana è partecipazione spirituale alla gioia insondabile, insieme
divina e umana, che è nel cuore di Gesù Cristo glorificato. Non appena Dio Padre comincia
a manifestare nella storia il disegno della sua benevolenza, che aveva prestabilito in Cristo,
per darvi compimento nella pienezza dei tempi (12), questa gioia si annuncia
misteriosamente in seno al Popolo di Dio, per quanto la sua identità non sia svelata.
Così Abramo, nostro Padre, scelto in vista del compimento futuro della Promessa, e
sperando contro ogni speranza, riceve, fin dalla nascita del figlio Isacco, le primizie
profetiche di questa gioia (13). Essa si trova come trasfigurata attraverso una prova di
morte, quando questo figlio unico gli è restituito vivo, prefigurazione della risurrezione di
Colui che deve venire: il Figlio unico di Dio promesso al sacrificio redentore. Abramo esultò
al pensiero di vedere il Giorno del Cristo, il Giorno della salvezza: egli «lo vide e se ne
rallegrò» (14).
La gioia della salvezza si dilata e si comunica poi lungo il corso della storia profetica
dell'antico Israele. Essa si mantiene e rinasce indefettibilmente attraverso tragiche prove
dovute alle infedeltà colpevoli del popolo eletto e alle persecuzioni esterne che vorrebbero
staccarlo dal suo Dio. Questa gioia, sempre minacciata e risorgente, è propria del popolo
nato da Abramo.
Si tratta sempre di una esperienza esaltante di liberazione e di restaurazione - per lo meno
annunziate - che ha per origine l'amore misericordioso di Dio verso il suo popolo
prediletto, in favore del quale egli compie, per pura grazia e potenza miracolosa, le
promesse dell'Alleanza. Tale è la gioia della Pasqua mosaica, che sopravvenne come figura
della liberazione escatologica che sarebbe stata realizzata da Gesù Cristo nel contesto
pasquale della nuova ed eterna Alleanza. Si tratta ancora della gioia veramente attuale,
cantata in varie riprese dai salmi, quella di vivere con Dio e per Dio. Si tratta infine e
sopratutto della gioia gloriosa e soprannaturale, profetizzata in favore della nuova
Gerusalemme, liberata dall'esilio ed amata di un amore mistico da Dio stesso.
Il senso ultimo di questo traboccare inaudito dell'amore redentore non potrà apparire che
nell'ora della nuova Pasqua e del nuovo Esodo. Allora il Popolo di Dio sarà condotto, nella
morte e nella risurrezione del Servo sofferente, da questo mondo al Padre, dalla
Gerusalemme simbolica di quaggiù alla Gerusalemme di lassù: «Dopo essere stata
derelitta, odiata, senza che alcuno passasse da te, io farò di te l'orgoglio dei secoli, la gioia
di tutte le generazioni ... Come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo
architetto; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (15).
III. LA GIOIA SECONDO IL NUOVO TESTAMENTO
Queste mirabili promesse hanno sostenuto, per secoli, e in mezzo alle prove più terribili, la
speranza mistica dell'antico Israele. Ed esso le ha trasmesse alla Chiesa di Gesù Cristo, in
modo che noi gli siamo debitori di alcuni dei più puri accenti del nostro canto di gioia.
Tuttavia, secondo la fede e l'esperienza cristiana dello Spirito, questa pace donata da Dio
che si diffonde come un torrente traboccante, quando giunge il tempo della
«consolazione» (16), è unita alla venuta e alla presenza del Cristo.
Nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore. La grande gioia annunciata dall'Angelo,
nella notte di Natale, è davvero per tutto il popolo (17), per quello d'Israele che attendeva
allora ansiosamente un Salvatore, come per il popolo innumerevole di tutti coloro che,
nella successione dei tempi, ne accoglieranno il messaggio e si sforzeranno di viverlo. Per
prima, la Vergine Maria ne aveva ricevuto l'annunzio dall'angelo Gabriele e il
suo Magnificat era già l'inno di esultanza di tutti gli umili. I misteri gaudiosi ci rimettono
così, ogni volta che noi recitiamo il Rosario, dinanzi all'avvenimento ineffabile che è centro
e culmine della storia: la venuta sulla terra dell'Emanuele, Dio con noi. Giovanni Battista,
che ha la missione di additarlo all'attesa d'Israele, aveva anch'egli esultato di giubilo, alla
sua presenza, nel grembo della madre (18). Quando Gesù inizia il suo ministero, Giovanni
«esulta di gioia alla voce dello sposo (19).
Soffermiamoci ora a contemplare la persona di Gesù, nel corso della sua vita terrena. Nella
sua umanità, egli ha fatto l'esperienza delle nostre gioie. Egli ha manifestamente
conosciuto, apprezzato, esaltato tutta una gamma di gioie umane, di quelle gioie semplici
e quotidiane, alla portata di tutti. La profondità della sua vita interiore non ha attenuato il
realismo del suo sguardo, né la sua sensibilità. Egli ammira gli uccelli del cielo e i gigli dei
campi. Egli richiama tosto lo sguardo di Dio sulla creazione all'alba della storia. Egli esalta
volentieri la gioia del seminatore e del mietitore, quella dell'uomo che scopre un tesoro
nascosto, quella del pastore che ritrova la sua pecora o della donna che riscopre la
dramma perduta, la gioia degli invitati al banchetto, la gioia delle nozze, quella del padre
che accoglie il proprio figlio al ritorno da una vita di prodigo e quella della donna che ha
appena dato alla luce il suo bambino. Queste gioie umane hanno tale consistenza per
Gesù da essere per lui i segni delle gioie spirituali del Regno di Dio: gioia degli uomini che
entrano in questo Regno, vi ritornano o vi lavorano, gioia del Padre che li accoglie. E per
parte sua Gesù stesso manifesta la sua soddisfazione e la sua tenerezza quando incontra
fanciulli che desiderano avvicinarlo, un giovane ricco, fedele e sollecito di fare di più, amici
che gli aprono la loro casa come Marta, Maria, Lazzaro. La sua felicità è soprattutto di
vedere la Parola accolta, gli indemoniati liberati, una peccatrice o un pubblicano come
Zaccheo convertirsi, una vedova sottrarre alla sua povertà per donare. Egli esulta anche
quando costata che i piccoli hanno la rivelazione del Regno, che rimane nascosto ai dotti e
ai sapienti (20). Sì, perché il Cristo «ha condiviso in tutto, eccetto il peccato, la nostra
condizione umana» (21) ha accolto e provato le gioie affettive e spirituali, come un dono
di Dio. E senza sosta egli «ai poveri annunziò il vangelo di salvezza, agli afflitti la gioia»
(22). Il Vangelo di san Luca offre una particolare testimonianza di questa seminagione di
allegrezza. I miracoli di Gesù, le parole di perdono sono altrettanti segni della bontà
divina: la folla intera esulta per tutte le meraviglie da lui compiute (23) e rende gloria a
Dio. Per il cristiano, come per Gesù, si tratta di vivere, nel rendimento di grazie al Padre, le
gioie umane che il Creatore gli dona.
Ma qui è importante cogliere bene il segreto della gioia inscrutabile che dimora in Gesù, e
che gli è propria. È specialmente il Vangelo di san Giovanni che ne solleva il velo,
affidandoci le parole intime del Figlio di Dio fatto uomo. Se Gesù irradia una tale pace, una
tale sicurezza, una tale allegrezza, una tale disponibilità, è a causa dell'amore ineffabile di
cui egli sa di essere amato dal Padre. Fin dal suo battesimo sulle rive del Giordano, questo
amore, presente fin dal primo istante della sua Incarnazione, è manifestato: «Tu sei il mio
figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (24).
Questa certezza è inseparabile dalla coscienza di Gesù. È una Presenza che non lascia mai
solo (25). È una conoscenza intima che lo colma: «Il Padre conosce me e io conosco il
Padre» (26). È uno scambio incessante e totale: «Tutte le cose mie sono tue e tutte le
cose tue sono mie» (27). Il Padre ha rimesso al Figlio il potere di giudicare, quello di
disporre della vita. È una reciproca inabitazione: «Io sono nel Padre e il Padre è in me»
(28). A sua volta, il Figlio rende al Padre un amore senza misura: «Io amo il Padre e faccio
quello che il Padre mi ha comandato» (29). Egli fa sempre ciò che piace al Padre: è il suo
«cibo» (30). La sua disponibilità giunge sino al dono della sua vita d'uomo, la sua fiducia
sino alla certezza di riprenderla: «Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita,
per poi riprenderla di nuovo» (31). In questo senso, egli si rallegra di andare al Padre. Non
si tratta per Gesù di una effimera presa di coscienza: è l'eco, nella sua coscienza umana,
dell'amore che egli conosce da sempre come Dio nel seno del Padre: «Tu mi hai amato
prima della creazione del mondo» (32). Vi è qui una relazione incomunicabile d'amore, che
si 'identifica con la sua esistenza di Figlio, ed è il segreto della vita trinitaria: il Padre vi
appare come colui che si dona al Figlio, senza riserva e senza intermissione, in un impeto
di generosità gioiosa, e il Figlio come colui che si dona nello stesso modo al Padre, con
uno slancio di gratitudine gioiosa, nello Spirito Santo.
Ed ecco che i discepoli, e tutti coloro che credono nel Cristo, sono chiamati a partecipare a
questa gioia. Gesù vuole che essi abbiano in se stessi la pienezza della sua gioia (33): «E
io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore col quale mi hai
amato sia in essi e io in loro» (34).
Questa gioia di dimorare nell'amore di Dio incomincia fin da quaggiù. È quella del Regno di
Dio. Ma essa è accordata su di una via scoscesa che richiede una totale fiducia nel Padre e
nel Figlio, e una preferenza data al Regno. Il messaggio di Gesù promette innanzi tutto la
gioia, questa gioia esigente; non si apre essa attraverso le beatitudini? «Beati, voi poveri,
perché vostro è il Regno di Dio. Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati
voi che ora piangete, perché riderete» (35).
Misteriosamente, il Cristo stesso, per sradicare dal cuore dell'uomo il peccato di
presunzione e manifestare al Padre, un'obbedienza integra e filiale, accetta di morire per
mano di empi (36), di morire su di una croce. Ma il Padre non ha permesso che la morte lo
ritenesse in suo potere. La risurrezione di Gesù è il sigillo posto dal Padre sul valore del
sacrificio del suo Figlio; è la prova della fedeltà del Padre, secondo il voto formulato da
Gesù prima di entrare nella sua passione: «Padre, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio
glorifichi te» (37). D'ora innanzi, Gesù è per sempre vivente nella gloria del Padre, ed è
per questo che i discepoli furono stabiliti in una gioia inestinguibile nel vedere il Signore, la
sera di Pasqua.
Ne deriva che, quaggiù, la gioia del Regno portato a compimento non può scaturire che
dalla celebrazione congiunta della morte e della risurrezione del Signore. È il paradosso
della condizione cristiana, che illumina singolarmente quello della condizione umana: né la
prova né la sofferenza sono eliminate da questo mondo, ma esse acquistano un significato
nuovo nella certezza di partecipare alla redenzione operata dal Signore, e di condividere la
sua gloria. Per questo il cristiano, sottoposto alle difficoltà dell'esistenza comune, non è
tuttavia ridotto a cercare la sua strada come a tastoni, né a vedere nella morte la fine delle
proprie speranze. Come lo annunciava il profeta: «Il popolo che camminava nelle tenebre
vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai
moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia» (38). L'Exultet pasquale canta un mistero
realizzato al di là delle speranze profetiche: nell'annuncio gioioso della risurrezione, la
pena stessa dell'uomo si trova trasfigurata, mentre la pienezza della gioia sgorga dalla
vittoria del Crocifisso, dal suo Cuore trafitto, dal suo Corpo glorificato, e rischiara le
tenebre delle anime: Et nox illuminatio mea in deliciis meis (39).
La gioia pasquale non è solamente quella di una trasfigurazione possibile: essa è quella
della nuova Presenza del Cristo Risorto, che largisce ai suoi lo Spirito Santo, affinché esso
rimanga con loro. In tal modo lo Spirito Paraclito è donato alla Chiesa come principio
inesauribile della sua gioia di sposa del Cristo glorificato. Egli richiama alla sua memoria,
mediante il ministero di grazia e di verità esercitato dai successori degli Apostoli,
l'insegnamento stesso del Signore. Egli suscita in essa la vita divina e l'apostolato, E il
cristiano sa che questo Spirito non sarà mai spento nel corso della storia. La sorgente di
speranza manifestata nella Pentecoste non si esaurirà.
Lo Spirito che procede dal Padre e dal Figlio, dei quali egli è il reciproco amore vivente, è
dunque comunicato d'ora innanzi al Popolo della nuova Alleanza, e ad ogni anima
disponibile alla sua azione intima. Egli fa di noi la sua abitazione: dulcis hospes
animae (40). Insieme con lui, il cuore dell'uomo è abitato dal Padre e dal Figlio (41). Lo
Spirito Santo suscita in esso una preghiera filiale, che sgorga dal più profondo dell'anima e
si esprime nella lode, nel ringraziamento, nella riparazione e nella supplica, Allora noi
possiamo gustare la gioia propriamente spirituale, che è un frutto dello Spirito Santo (42):
essa consiste nel fatto che lo spirito umano trova riposo e un'intima soddisfazione nel
possesso di Dio Trinità, conosciuto mediante la fede e amato con la carità che viene da lui.
Una tale gioia caratterizza, a partire di qui, tutte le virtù cristiane. Le umili gioie umane,
che sono nella nostra vita come i semi di una realtà più alta, vengono trasfigurate. Questa
gioia, quaggiù, includerà sempre in qualche misura la dolorosa prova della donna nel
parto, e un certo abbandono apparente, simile a quello dell'orfano: pianti e lamenti,
mentre il mondo ostenterà una soddisfazione maligna. Ma la tristezza dei discepoli, che è
secondo Dio e non secondo il mondo, sarà prontamente mutata in una gioia spirituale, che
nessuno potrà loro togliere (43).
Tale è la legge fondamentale dell'esistenza cristiana, e massimamente della vita apostolica.
Questa, poiché è animata da un amore urgente del Signore e dei fratelli, si manifesta
necessariamente sotto il segno del sacrificio pasquale, e per amore va incontro alla morte,
e attraverso la morte alla vita e all'amore. Donde la condizione del cristiano, e in primo
luogo dell'apostolo, che deve diventare il «modello del gregge» (44) e associarsi
liberamente alla passione del Redentore. Essa corrisponde così a ciò che è stato definito
nel Vangelo come la legge della beatitudine cristiana, in continuità con la sorte dei profeti:
«Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di
male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra
ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi» (45).
Non ci mancano purtroppo occasioni di verificare, nel nostro secolo così minacciato
dall'illusione di false felicità, l'incapacità dell'uomo «naturale» a comprendere «le cose
dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può
giudicare solo per mezzo dello Spirito» (46). Il mondo - quello che è inetto a ricevere lo
Spirito di Verità, ch'esso non vede né conosce - non scorge che un aspetto delle cose. Esso
considera soltanto l'afflizione e la povertà del discepolo, quando questi dimora sempre nel
più profondo di se stesso nella gioia, perché egli è in comunione col Padre e col Figlio suo
Gesù Cristo.
IV. LA GIOIA NEL CUORE DEI SANTI
Questa, Fratelli e Figli amatissimi, è la gioiosa speranza, attinta alle sorgenti stesse della
Parola di Dio. Dopo venti secoli, questa sorgente di gioia non ha cessato di zampillare nella
Chiesa, e specialmente nel cuore dei santi. È necessario che noi, ora, facciamo sentire
qualche eco di tale esperienza spirituale, che, secondo la diversità dei carismi delle
vocazioni particolari, illumina il mistero della gioia cristiana.
Al primo posto ecco la Vergine Maria, piena di grazia, la Madre del Salvatore. Disponibile
all'annuncio venuto dall'alto, essa, la serva del Signore, la sposa dello Spirito Santo, la
Madre dell'eterno Figlio, fa esplodere la sua gioia dinanzi alla cugina Elisabetta, che ne
esalta la fede: «L'anima mia magnifica il Signore, e il mio spirito esulta in Dio, mio
Salvatore . . . D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata» (47). Essa, meglio
di ogni altra creatura, ha compreso che Dio compie azioni meravigliose: santo è il suo
Nome, egli mostra la sua misericordia, egli innalza gli umili, egli è fedele alle sue
promesse. Non che l'apparente corso della vita di Maria esca dalla trama ordinaria: ma
essa riflette sui più piccoli segni di Dio, meditandoli nel suo cuore. Non che le sofferenze le
siano state risparmiate: essa sta in piedi accanto alla croce, associata in modo eminente al
sacrificio del Servo innocente, Lei ch'è madre dei dolori.
Ma essa è anche aperta senza alcun limite alla gioia della Risurrezione; ed essa è anche
elevata, corpo e anima, alla gloria del Cielo. Prima creatura redenta, Immacolata fin dalla
concezione, dimora incomparabile dello Spirito, abitacolo purissimo del Redentore degli
uomini, essa è al tempo stesso la Figlia prediletta di Dio e, nel Cristo, la Madre universale.
Essa è il tipo perfetto della Chiesa terrena e glorificata. Quale mirabile risonanza
acquistano, nella sua esistenza singolare di Vergine d'Israele, le parole profetiche rivolte
alla nuova Gerusalemme: «Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio
Dio, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto col manto della giustizia,
come uno sposo che si cinge di diadema e come una sposa che si adorna di gioielli»
(48).Vicina al Cristo, essa ricapitola in sé tutte le gioie, essa vive la gioia perfetta promessa
alla Chiesa: Mater piena sanctae laetitiae; e giustamente i suoi figli qui in terra, volgendosi
verso colei che è madre della speranza e madre della grazia, la invocano come la causa
della loro gioia: Causa nostrae laetitiae.
Dopo Maria, noi incontriamo l'espressione della gioia più pura, più ardente, là dove la
Croce di Gesù viene abbracciata con l'amore più fedele: presso i martiri, ai quali lo Spirito
Santo ispira, al culmine stesso della prova, un'attesa appassionata della venuta dello
Sposo. Santo Stefano, che muore vedendo il cielo aperto, non è che il primo di questi
testimoni innumerevoli del Cristo. Quanti ve ne sono, ancora ai nostri giorni e in vari Paesi,
che, rischiando tutto per il Cristo, potrebbero affermare come il martire Sant'Ignazio di
Antiochia: «Vi scrivo mentre sono ancora vivo, ma desidero di morire. Il mio desiderio
terreno è stato crocifisso, e in me non c'è più fuoco alcuno per amare la materia, ma in me
c'è un'acqua viva che mormora e dice nel mio intimo: Vieni al Padre (49).
In realtà, la forza della Chiesa, la certezza della sua vittoria, la sua allegrezza quando si
celebra il combattimento dei martiri, provengono dal fatto ch'essa contempla in loro la
fecondità gloriosa della Croce. Per questo motivo il nostro Predecessore san Leone Magno,
esaltando da questa cattedra romana il martirio dei santi apostoli Pietro e Paolo, esclama:
«È preziosa davanti allo sguardo di Dio la morte dei suoi santi, e nessuna specie di
efferatezza può distruggere una religione fondata sul mistero della Croce di Cristo. La
Chiesa non diminuisce, bensì cresce con le persecuzioni; e il campo del Signore si riveste
incessantemente d'una messe più ricca quando i grani di frumento, caduti singolarmente,
rinascono moltiplicati» (50).
Nella casa del Padre, peraltro, vi sono molte dimore, e, per coloro cui lo Spirito Santo
consuma il cuore, vi sono diverse maniere di morire a se stessi e di accedere alla gioia
santa della risurrezione. L'effusione del sangue non è l'unica via. Ma la lotta per il Regno
include necessariamente il passaggio attraverso una passione d'amore; i maestri di spirito
ne hanno parlato egregiamente. E, qui, le loro esperienze interiori s'incontrano, pur nella
diversità delle tradizioni mistiche, in Oriente come in Occidente. Queste attestano un
medesimo itinerario dell'anima, per crucem ad lucem, e da questo mondo al Padre, nel
soffio vivificante dello Spirito.
Ciascuno di questi maestri di spirito ci ha lasciato un messaggio sulla gioia. I Padri orientali
abbondano di testimonianze su questa gioia nello Spirito Santo. Origene, ad esempio, ha
descritto spesso la gioia di colui che entra nella conoscenza intima di Gesù: l'anima è allora
inondata di allegrezza come quella del vecchio Simeone. Nel tempio che è la Chiesa, egli
stringe Gesù fra le braccia. Egli gode pienamente della salvezza tenendo fra le mani colui
nel quale Dio riconcilia a sé il mondo (51). Nel Medioevo, fra molti altri, un maestro
spirituale d'Oriente, Nicola Cabasilas, Vuol dimostrare come l'amore di Dio per lui procuri il
massimo della gjoia (52). In Occidente, basti citare qualche nome fra quelli che hanno
fatto scuola sul cammino della santità e della gioia: sant'Agostino, san Bernardo, san
Domenico, Sant'Ignazio di Loyola, san Giovanni della Croce, santa Teresa d'Avila, san
Francesco di Sales, san Giovanni Bosco.
Ma noi vogliamo ricordare in modo più marcato tre figure, che ancora oggi attirano
moltissimo l'insieme del popolo cristiano. E anzitutto il Poverello d'Assisi, sulle cui tracce si
sforzano di mettersi numerosi pellegrini dell'Anno Santo. Avendo abbandonato tutto per il
Signore, egli, grazie a madonna povertà, ricupera qualcosa, si può dire, della beatitudine
primordiale, quando il mondo uscì, intatto, dalle mani del Creatore. Nella spogliazione
estrema, ormai quasi cieco, egli poté cantare l'indimenticabile Cantico delle creature, la
lode di frate sole, della natura intera, divenuta per lui come trasparente, specchio
immacolato della gloria divina, e perfino la gioia davanti alla venuta di «sora nostra morte
corporale»: «Beati quilli ke se trovarà ne le tue sanctissime voluntati». In tempi più vicini a
noi, santa Teresa di Lisieux ci mostra la via coraggiosa dell'abbandono nelle mani di Dio, al
quale essa affida la propria piccolezza. Ma non per questo essa ignora il sentimento
dell'assenza di Dio, cosa di cui il nostro secolo, a suo modo, fa la dura esperienza:
«Talvolta all'uccellino (a cui essa si paragona) sembra di credere che non esista altra cosa
all'infuori delle nuvole che l'avvolgono . . . È quello il momento della gioia perfetta per il
povero debole esserino . . . Che gioia per lui restarsene là malgrado tutto, fissare la luce
invisibile che si nasconde alla sua fede» (53).
Infine come non ricordare, immagine luminosa per la nostra generazione, l'esempio del
beato Massimiliano Kolbe, genuino discepolo di san Francesco? Durante le prove più
tragiche, che insanguinarono la nostra epoca, egli si offrì spontaneamente alla morte per
salvare un fratello sconosciuto; e i testimoni ci riferiscono che il luogo di sofferenze, ch'era
di solito come un'immagine dell'inferno, fu in qualche modo cambiato, per i suoi infelici
compagni come per lui stesso, nell'anticamera della vita eterna dalla sua pace interiore,
dalla sua serenità e dalla sua gioia.
Nella vita dei figli della Chiesa, questa partecipazione alla gioia del Signore non si può
dissociare dalla celebrazione del mistero eucaristico, ov'essi sono nutriti e dissetati dal suo
Corpo e dal suo Sangue. Di fatto, in tal modo sostenuti, come dei viandanti sulla strada
dell'eternità, essi già ricevono sacramentalmente le primizie della gioia escatologica.
Collocata in una prospettiva simile, la gioia ampia e profonda, che fin da quaggiù si
diffonde nel cuore dei veri fedeli, non può che apparire «diffusiva di sé», proprio come la
vita e l'amore, di cui essa è un sintomo felice. Essa risulta da una comunione umano-
divina, e aspira a una comunione sempre più universale. In nessun modo potrebbe indurre
colui che la gusta ad una qualche attitudine di ripiegamento su di sé, Essa dà al cuore
un'apertura cattolica sul mondo degli uomini, mentre gli fa sentire, come una ferita, la
nostalgia dei beni eterni. Nei fervorosi, essa approfondisce la consapevolezza della loro
condizione di esiliati, ma li salva altresì dalla tentazione di disertare il proprio posto di
combattimento per l'avvento del Regno. Essa fa loro attivamente affrettare il passo verso
la consumazione celeste delle Nozze dell'Agnello. Essa è in serena tensione tra l'istante
della fatica terrena e la pace della Dimora eterna, conforme alla legge di gravità propria
dello Spirito: «Se dunque, già fin d'ora, noi gridiamo Abba, Padre! perché abbiamo
ricevuto questi pegni (dello Spirito di figli), che cosa sarà mai, quando, risuscitati, noi lo
vedremo a faccia a faccia? Quando tutte le membra, a ondate riversantisi, faranno
sgorgare un inno di esultanza, glorificando Colui che le avrà risuscitate dai morti e
gratificate dell'eterna vita? Di fatto, se semplici pegni, avvolgono in se stessi l'uomo da
tutte le parti, Io fanno esclamare: "Abba, Padre!", che cosa non farà mai la grazia
completa dello Spirito, quando sarà data definitivamente da Dio agli uomini? Essa ci
renderà simili a lui e compirà la volontà del Padre, perché renderà l'uomo a immagine e
somiglianza di Dio» (54). Fin da quaggiù, i santi ci danno un pregustamento di questa
somiglianza.
V. UNA GIOIA PER TUTTO IL POPOLO
Ascoltando questa voce molteplice e unisona dei santi, avremmo forse dimenticato la
presente condizione della società umana, in apparenza tanto poco interessata ai beni
soprannaturali? Avremmo forse sopravvalutato le aspirazioni spirituali dei cristiani del
nostro tempo? Avremmo forse riservato la nostra esortazione unicamente ad un piccolo
numero di dotti e di sapienti? Non possiamo ignorare che il Vangelo è stato annunziato
prima di tutto ai poveri e agli umili, nello splendore della sua semplicità e nella pienezza
del suo contenuto.
Nel rievocare questo luminoso orizzonte della gioia cristiana, non abbiamo dunque
certamente pensato che esso potesse scoraggiare qualcuno di voi, Fratelli e Figli
amatissimi, che sentite il vostro cuore combattuto quando la chiamata di Dio vi raggiunge.
Al contrario, noi sentiamo che la nostra gioia, al pari della vostra, sarà completa solo se ci
rivolgeremo insieme, con piena fiducia, verso «Gesù, autore e perfezionatore della fede.
Egli, in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando
l'ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha
sopportato contro di sé una così grande ostilità da parte dei peccatori, perché non vi
stanchiate perdendovi d'animo» (55).
L'invito rivolto da Dio Padre a partecipare pienamente alla gioia di Abramo, alla festa
eterna delle Nozze dell'Agnello, è una convocazione universale. Ogni uomo, purché si
renda attento e disponibile, può percepirla nell'intimo del proprio cuore, in modo del tutto
particolare in questo Anno Santo, in cui la Chiesa apre a tutti più largamente i tesori della
misericordia di Dio. «Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che
sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro» (56).
Noi non potremmo pensare al Popolo di Dio in maniera astratta. Il nostro sguardo si
rivolge innanzitutto al mondo dei bambini. Finché trovano nell'amore di chi è loro vicino la
sicurezza di cui hanno bisogno, essi hanno anche la capacità di assimilazione, di stupore,
di fiducia, di spontaneità nel donarsi. Essi sono idonei alla gioia evangelica. Chi vuole
entrare nel Regno, ci dice Gesù, deve innanzitutto guardare a loro (57).
E ancora, noi raggiungiamo col pensiero tutti coloro che ricoprono piena responsabilità
familiare, professionale, sociale. Il peso dei loro compiti, in un mondo estremamente
instabile, toglie loro troppo spesso la possibilità di gustare le gioie quotidiane. Ma
ciononostante esse esistono, e lo Spirito Santo vuole aiutarli a riscoprirle, a purificarle, a
condividerle.
Noi pensiamo al mondo dei sofferenti, a tutti coloro che stanno volgendo al termine della
vita. La gioia di Dio bussa alla porta delle loro sofferenze fisiche e morali, non certamente
per deriderli, ma per compiervi la sua paradossale opera di trasfigurazione.
Il nostro spirito e il nostro cuore si rivolgono anche verso coloro che vivono al di là della
sfera visibile del Popolo di Dio. Conformando la loro vita ai richiami più profondi della
propria coscienza, che è l'eco della voce di Dio, anch'essi sono sulla via della gioia.
Ma il Popolo di Dio non può avanzare senza guide. Sono i pastori, i teologi, i maestri di
spirito, i sacerdoti e quanti con essi collaborano all'animazione delle comunità cristiane. La
loro missione è di aiutare i fratelli ad incamminarsi sui sentieri della gioia evangelica, in
mezzo alle realtà di cui è costituita la loro vita e dalle quali non potrebbero evadere.
Sì, l'immenso amore di Dio chiama coloro che provengono dai diversi punti dell'orizzonte a
confluire verso la Città celeste, sia che si trovino - in questo Anno Santo - vicini o ancora
lontani. E dato che tutti questi convocati - cioè tutti noi - restiamo in qualche misura
peccatori, occorre che cessiamo di indurire il nostro cuore, per ascoltare la voce del
Signore e accogliere la proposta del grande perdono, così come l'annunciava il profeta
Geremia: «Li purificherò da tutta l'iniquità con cui hanno peccato contro di me e perdonerò
tutte le iniquità che hanno commesso verso di me e per cui si sono ribellati contro di me.
Ciò sarà per me titolo di gioia, di lode e di gloria tra tutti i popoli della terra» (58).
E poiché questa promessa di perdono, e tante altre, ricevono il loro significato definitivo
nel sacrificio redentore di Gesù, Servo sofferente, soltanto Lui può dirci, in questo
momento cruciale della vita dell'umanità: «Convertitevi e credete al Vangelo» (59). Il
Signore vuol soprattutto farci comprendere che la conversione richiesta non è
assolutamente un passo indietro, come avviene invece col peccato. Viceversa, la
conversione è mettersi sulla giusta strada, progredire nella vera libertà e nella gioia. È
risposta ad un invito che proviene da lui, amoroso, rispettoso e pressante nello stesso
tempo: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il
mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete
ristoro per le vostre anime» (60).
Infatti, vi è forse un peso più opprimente del peccato? Un'angoscia più desolata di quella
del prodigo, descritta dall'evangelista san Luca? Al contrario, quale incontro più
sconvolgente di quello tra il Padre, paziente e misericordioso, e il figlio tornato sui suoi
passi? «Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti
che non hanno bisogno di conversione» (61). Ma chi è senza peccato, al di fuori di Cristo e
della sua Madre Immacolata? Perciò l'Anno Santo - promessa di giubilo per tutto il Popolo -
col suo invito a tornare al Padre nel pentimento è anche un richiamo a riscoprire il
significato e la pratica del sacramento della Riconciliazione. Sulla scia della migliore
tradizione spirituale, noi ricordiamo ai fedeli e ai loro pastori che l'accusa delle colpe gravi
è necessaria, e che la confessione frequente resta una sorgente privilegiata di santità, di
pace e di gioia.
VI. LA GIOIA E LA SPERANZA NEL CUORE DEI GIOVANI
Senza nulla togliere al calore con cui il nostro messaggio si indirizza a tutto il Popolo di
Dio, vogliamo soffermarci qualche tempo per rivolgerci più ampiamente, e con una
particolare speranza, al mondo dei giovani.
Se infatti la Chiesa, rigenerata dallo Spirito Santo, è in un certo senso la vera giovinezza
del mondo - in quanto resta fedele alla propria realtà e alla propria missione - potrebbe
forse non riconoscersi spontaneamente, di preferenza, in quanti si sentono portatori di vita
e di speranza, e impegnati ad assicurare il domani della storia presente? E,
reciprocamente, coloro che in ogni periodo di questa storia percepiscono in se stessi più
intensamente lo slancio della vita, l'attesa dell'avvenire, l'esigenza degli autentici
rinnovamenti, potrebbero forse non essere intimamente in armonia con una Chiesa
animata dallo Spirito di Cristo? Come potrebbero non aspettarsi da essa la trasmissione del
suo segreto di permanente giovinezza, e quindi la gioia della loro propria giovinezza?
Noi riteniamo che una tale corrispondenza esista di diritto e di fatto; non sempre
visibilmente, ma certo in profondità, nonostante i molti ostacoli contingenti. Perciò, in
questa Esortazione sulla gioia cristiana, la ragione e il cuore ci invitano a rivolgerci
decisamente ai giovani del nostro tempo. Lo facciamo nel nome di Cristo e della sua
Chiesa, che egli stesso vuole, malgrado le umane debolezze, «tutta gloriosa, senza
macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (62).
Nel fare questo, non cediamo ad un ossequio sentimentale. Considerata dal solo punto di
vista dell'età, la giovinezza è un fatto effimero. L'esaltazione che se ne fa diventa presto
nostalgica o derisoria. Ma non è la stessa cosa per quanto riguarda il senso spirituale di
questo momento di grazia, che è la giovinezza vissuta autenticamente. Ciò che attira la
nostra attenzione è essenzialmente la corrispondenza - transitoria e minacciata,
certamente, ma tuttavia significativa e ricca di generose promesse - tra lo slancio di un
essere che naturalmente si apre ai richiami e alle esigenze del suo alto destino umano, e il
dinamismo dello Spirito Santo, dal quale la Chiesa riceve inesauribilmente la propria
giovinezza, il dono della sostanziale fedeltà a se stessa e, in questa fedeltà, la propria
vitale creatività. Dall'incontro fra l'essere umano che possiede - per alcuni anni decisivi - la
disponibilità della giovinezza, e la Chiesa nella sua permanente giovinezza spirituale,
sgorga necessariamente, da una parte e dall'altra, un'intensissima gioia e una promessa di
fecondità. La Chiesa, come Popolo di Dio pellegrinante verso il regno futuro, deve potersi
perpetuare, e quindi rinnovare attraverso le generazioni umane: è una condizione di
fecondità, e semplicemente di vita. È dunque importante che, in ogni momento della sua
storia, la generazione che sorge appaghi, in qualche modo, la speranza delle generazioni
precedenti, la speranza stessa della Chiesa, che è quella di trasmettere senza fine il dono
di Dio, Verità e Vita. Per questo, in ogni generazione, i giovani cristiani devono ratificare, in
piena coscienza e incondizionatamente, la alleanza da essi stipulata nel sacramento del
Battesimo e consolidata nel sacramento della Confermazione.
A questo proposito, la nostra epoca di profonde trasformazioni non è priva di gravi
difficoltà per la Chiesa. Ne abbiamo una consapevolezza molto chiara, noi che portiamo,
con tutto il Collegio episcopale, «la preoccupazione per tutte le Chiese» (63), e la
sollecitudine per il loro futuro avvenire. Ma, nello stesso tempo, noi rileviamo nella fede e
nella speranza che non delude (64), che la grazia non mancherà al Popolo cristiano. E noi
auguriamo che questo non manchi alla grazia e non rinunci - come alcuni oggi sono tentati
di fare - all'eredità di verità e di santità, pervenuta fino a questo momento decisivo della
sua storia secolare. Noi riteniamo di possedere tutte le ragioni di confidare - poiché proprio
di questo si tratta - nella gioventù cristiana: essa non verrà meno alla Chiesa se, nella
Chiesa, vi saranno abbastanza persone mature, capaci di comprenderla, di amarla, di
guidarla e di aprirle un avvenire, trasmettendole in tutta fedeltà la Verità che rimane.
Allora nuovi operai, risoluti e ferventi, entreranno a loro volta per il lavoro spirituale e
apostolico, nei campi che già biondeggiano per la mietitura. Allora chi semina e chi miete
condivideranno la medesima gioia del Regno (65).
Ci sembra infatti che la presente crisi del mondo, caratterizzata per molti giovani da una
grande confusione, denunci da una parte l'aspetto senile - del tutto anacronistico - di una
civiltà commerciale, edonistica, materialistica, che tenta ancora di spacciarsi come
portatrice d'avvenire. Contro questa illusione, la reazione istintiva di numerosi giovani, pur
nei suoi eccessi, esprime un valore reale. Questa generazione è in attesa di qualche altra
cosa. Privata repentinamente di tradizioni protettive, e poi amaramente disillusa dalla
vanità e dal vuoto spirituale delle false novità, delle ideologie atee, di certi misticismi
deleteri, non sta forse per scoprire o per ritrovare la novità sicura e inalterabile del mistero
divino rivelato in Gesù Cristo? Non ha forse egli - secondo la bella espressione di
Sant'Ireneo - «disvelato ogni novità venendo nella sua persona»? (66)
Per questo motivo ci piace dedicare in modo più esplicito a voi, giovani cristiani del nostro
tempo, promessa della Chiesa di domani, questa celebrazione della gioia spirituale. Vi
invitiamo cordialmente a rendervi attenti ai richiami interiori che vi pervengono. Vi
stimoliamo ad elevare il vostro sguardo, il vostro cuore, le vostre fresche energie verso le
altezze, ad affrontare lo sforzo delle ascensioni dello spirito. E vogliamo darvi questa
certezza: nella misura in cui può essere deprimente il pregiudizio - oggi dappertutto diffuso
- che lo spirito umano sarebbe incapace di attingere la Verità permanente e vivificante,
altrettanto profonda e liberatrice è la gioia della Verità divina riconosciuta nella
Chiesa: gaudium de Veritate (67). Questa è la gioia che vi offriamo. Essa si dona a chi
l'ama tanto da cercarla tenacemente. Disponendovi ad accoglierla e a comunicarla, voi
garantirete nello stesso tempo il vostro personale perfezionamento secondo il Cristo, e la
prossima tappa storica del Popolo di Dio.
VII. LA GIOIA DEL PELLEGRINO IN QUESTO ANNO SANTO
In questo cammino di tutto il Popolo di Dio si inscrive naturalmente l'Anno Santo, col suo
pellegrinaggio. La grazia del Giubileo si ottiene, in effetti, mettendosi in cammino e
avanzando verso Dio nella fede, nella speranza e nella carità. Diversificando i mezzi e i
momenti di questo Giubileo, abbiamo voluto facilitare a ciascuno quanto è possibile.
L'essenziale resta la decisione interiore di rispondere alla chiamata dello Spirito, in maniera
personale, come discepoli di Gesù, come figli della Chiesa cattolica e apostolica e secondo
l'intenzione di questa Chiesa. Il resto è nell'ordine dei segni e dei mezzi. Sì, l'auspicato
pellegrinaggio è, per il Popolo di Dio, nel suo insieme e per ciascuna persona entro questo
Popolo, un movimento, una Pasqua, cioè un passaggio verso il luogo interiore dove il
Padre, il Figlio e lo Spirito l'accolgono nella loro intimità e unità divina: «Se uno mi ama
osserverà la mia parola e il Padre mio In amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora
presso di lui» (68). La scoperta di questa presenza suppone sempre un approfondimento
della vera coscienza di sé, come creatura e figlio di Dio.
Non è forse un rinnovamento interiore di tal genere quello voluto, in fondo, dal recente
Concilio? (69) Senza dubbio, v'è ivi un'opera dello Spirito, un dono della Pentecoste.
Parimenti bisogna riconoscere una intuizione profetica nel nostro Predecessore Giovanni
XXIII, il quale previde come frutto del Concilio una specie di nuova Pentecoste (70). Anche
noi abbiamo voluto metterci nella stessa prospettiva e nella medesima attesa. Non che la
Pentecoste abbia mai cessato di essere attuale lungo il corso della storia della Chiesa, ma
così grandi sono i bisogni e i pericoli di questo secolo, così vasti gli orizzonti di una
umanità rivolta alla coesistenza mondiale ma impotente a realizzarla, che per essa non c'è
salvezza, se non in una nuova effusione del dono di Dio. Venga dunque lo Spirito Creatore
a rinnovare la faccia della terra! In questo Anno Santo noi vi abbiamo invitato a compiere,
materialmente o in spirito e in intenzione, un pellegrinaggio a Roma, cioè al centro della
Chiesa cattolica. Ma, è troppo evidente, Roma non costituisce il termine del nostro
pellegrinaggio nel tempo. Nessuna città santa, quaggiù, può costituire questo termine.
Esso è nascosto al di là di questo mondo, nel cuore del mistero di Dio, per noi ancora
invisibile: noi, infatti, camminiamo nella fede, non nella chiara visione, e ciò che noi
saremo non è stato ancora manifestato. La nuova Gerusalemme, di cui noi siamo fin d'ora
cittadini e figli (71), discende dall'alto, da presso Dio. Di questa sola Città definitiva non
abbiamo ancora contemplato lo splendore, se non come in uno specchio, in maniera
confusa, tenendo ferma la parola dei profeti. Ma fin d'ora ne siamo i cittadini o siamo
invitati a divenirlo; ogni pellegrinaggio spirituale trae il suo senso interiore da questa
destinazione ultima.
Così era della Gerusalemme celebrata dai salmisti. Gesù medesimo e Maria sua madre
hanno cantato in terra, salendo a Gerusalemme, i cantici di Sion: «Bellezza perfetta, gioia
di tutta la terra» (72). Ma è dal Cristo ormai che la Gerusalemme di lassù riceve la sua
attrattiva, è verso di Lui che noi siamo indirizzati con un cammino interiore.
Cosi è di Roma, dove i santi Apostoli Pietro e Paolo resero col sangue la loro ultima
testimonianza. La vocazione di Roma è di provenienza apostolica, e il ministero che ci
spetta di esercitarvi è un servizio a beneficio della Chiesa intera e dell'umanità. Ma esso è
un servizio insostituibile, perché piacque alla sapienza di Dio porre la Roma di Pietro e
Paolo, sulla strada, diciamo, che conduce alla Città eterna, per il fatto che essa ha scelto di
affidare a Pietro - che unifica in sé il Collegio episcopale - le chiavi del Regno dei Cieli. Ciò
che sta qui, non per effetto di volontà d'uomo, ma per libera e misericordiosa benevolenza
del Padre, del Figlio e dello Spirito, è la soliditas Petri, come ebbe a celebrarla il nostro
Predecessore san Leone Magno con questi termini indimenticabili: «San Pietro non cessa
di presiedere alla sua sede e conserva una società senza fine col Sommo Sacerdote. La
stabilità che egli ricevette dalla Pietra che è il Cristo, egli, divenuto anche lui Pietra, la
trasmette ugualmente ai suoi successori; e dovunque appare qualche stabilità si manifesta
indubbiamente la forza del Pastore . . . Ecco, è talmente in vigore e vita, nel Principe degli
Apostoli, questo amore di Dio e degli uomini, che non lo hanno atterrito né la reclusione
del carcere, né le catene, né le pressioni della folla, né le minacce dei re; e così è anche
della sua fede invincibile, la quale non ha indietreggiato nel combattimento e non si è
intiepidita nella vittoria» (73).
Noi auguriamo in ogni tempo, ma soprattutto in questa celebrazione cattolica dell'Anno
Santo, che, sia a Roma, sia in tutta la Chiesa, consapevole di doversi accordare con
l'autentica tradizione conservata a Roma (74) voi possiate provare con noi «quanto è
buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme» (75).
È una gioia comune, veramente soprannaturale, un dono dello Spirito di unità e d'amore,
che non è davvero possibile se non là dove la predicazione della fede è accolta
integralmente, secondo la norma apostolica. E allora la Chiesa cattolica, «benché diffusa in
tutto il mondo, conserva accuratamente questa fede come se essa abitasse in una sola
casa, e vi crede unanimemente, come se non avesse che una sola anima e un solo cuore;
e la predica, l'insegna e la trasmette in perfetto accordo, come se non avesse che una sola
bocca» (76).
Questa «sola casa», questo «cuore» e questa «anima» unici, questa «sola bocca», ecco
quanto è indispensabile alla Chiesa e all'umanità nel suo insieme, affinché quaggiù possa
elevarsi continuamente, in consonanza con la Gerusalemme di lassù, il cantico nuovo,
l'inno della gioia divina. È la ragione per la quale anche noi dobbiamo rendere
testimonianza umilmente, pazientemente, ostinatamente, fosse pure in mezzo
all'incomprensione di molti, all'incarico ricevuto dal Signore di guidare il gregge e di
confermare i nostri fratelli (77). Ma in quanti modi ci capita di essere, a nostra volta,
confortati dai nostri fratelli, anche solo a pensare a voi tutti nel compiere la nostra
missione apostolica a servizio della Chiesa universale, a gloria di Dio Padre.
CONCLUSIONE
Nel mezzo di quest'Anno Santo, noi abbiamo pensato di essere fedeli alle ispirazioni dello
Spirito Santo, chiedendo ai cristiani di ritornare così alle sorgenti della gioia.
Fratelli e Figli carissimi, non è forse normale che la gioia abiti in noi allorché i nostri cuori
ne contemplano o ne riscoprono, nella fede, i motivi fondamentali? Essi sono semplici: Dio
ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito; mediante il suo Spirito, la sua
Presenza non cessa di avvolgerci con la sua tenerezza e di penetrarci con la sua Vita; e noi
camminiamo verso la beata trasfigurazione della nostra esistenza nel solco della
risurrezione di Gesù. Sì, sarebbe molto strano se questa Buona Novella, che suscita
l'alleluia della Chiesa, non ci desse un aspetto di salvati.
La gioia di essere cristiano, strettamente unito alla Chiesa, «nel Cristo», in stato di grazia
con Dio, è davvero capace di riempire il cuore dell'uomo. Non è forse questa esultanza
profonda che dà un accento sconvolgente al Mémorial di Pascal: «Gioia, gioia, gioia, pianti
di gioia»? E vicinissimi a noi, quanti scrittori sanno esprimere in una forma nuova
pensiamo per esempio a Georges Bernanos - questa gioia evangelica degli umili, che
traspare dappertutto in un mondo che parla del silenzio di Dio! La gioia nasce sempre da
un certo sguardo sull'uomo e su Dio: «Se il tuo occhio è sano, anche il tuo corpo è tutto
nella luce» (78). Noi tocchiamo qui la dimensione originale e inalienabile della persona
umana: la sua vocazione al bene passa per i sentieri della conoscenza e dell'amore, della
contemplazione e dell'azione. Possiate voi cogliere quanto c'è di meglio nell'anima dei
fratelli e questa Presenza divina tanto vicina al cuore umano.
Che i nostri figli inquieti di certi gruppi respingano dunque gli eccessi della critica
sistematica e disgregatrice! Senza allontanarsi da una visione realistica, le comunità
cristiane diventino luoghi di ottimismo, dove tutti i componenti s'impegnano risolutamente
a discernere l'aspetto positivo delle persone e degli avvenimenti. «La carità non gode
dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto
sopporta» (79).
L'educazione a un tale sguardo non è solamente compito della psicologia. Essa è anche un
frutto dello Spirito Santo. Questo Spirito, che abita in pienezza nella persona di Gesù, lo ha
reso, durante la sua vita terrena, così attento alle gioie della vita quotidiana, così delicato
e così persuasivo per rimettere i peccatori sul cammino di una nuova giovinezza di cuore e
di spirito! È questo medesimo Spirito che ha animato la Vergine Maria e ciascuno dei santi.
È questo medesimo Spirito che dona ancor oggi a tanti cristiani la gioia di vivere ogni
giorno la loro vocazione particolare nella pace e nella speranza, che sorpassano le
delusioni e le sofferenze. È lo Spirito di Pentecoste che porta oggi moltissimi discepoli di
Cristo sulle vie della preghiera, nell'allegrezza di una lode filiale, e verso il servizio umile e
gioioso dei diseredati e degli emarginati dalla società. Poiché la gioia non può dissociarsi
dalla partecipazione. In Dio stesso tutto è gioia poiché tutto è dono.
Questo sguardo positivo sulle persone e sulle cose, frutto d'uno spirito umano illuminato e
dello Spirito Santo, trova presso i cristiani un luogo privilegiato di arricchimento: la
celebrazione del mistero pasquale di Gesù. Nella sua passione, morte e risurrezione il
Cristo ricapitola la storia di ogni uomo e di tutti gli uomini, col loro peso di sofferenze e di
peccati, con le loro possibilità di superamento e di santità. Perciò la nostra ultima parola in
questa Esortazione è un appello pressante a tutti i responsabili e animatori delle comunità
cristiane: non temano di insistere, a tempo e fuori tempo, sulla fedeltà dei battezzati a
celebrare nella gioia ;Eucaristia domenicale. Come potrebbero essi trascurare questo
incontro, questo banchetto che Cristo ci prepara nel suo amore? Che la partecipazione ad
esso sia insieme degnissima e gioiosa! È il Cristo, crocifisso e glorificato, che passa in
mezzo ai suoi discepoli, per trascinarli insieme nel rinnovamento della sua risurrezione. È il
culmine, quaggiù, dell'Alleanza d'amore tra Dio e il suo popolo: segno e sorgente di gioia
cristiana, tappa per la Festa eterna.
Là il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo vi guidino! Noi di gran cuore vi benediciamo.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 9 maggio dell'anno 1975, dodicesimo del Nostro Pontificato.
PAOLO PP. VI
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